Il libro di Alberto Fabio Ambrosio inaugura la collana edita da Mimesis dedicata alla ricerca e allo studio del rapporto tra moda e religione, diretta dallo stesso Ambrosio, professore di teologia e storia delle religioni alla Luxembourg School of Religion & Society e direttore di ricerca al Collège des Bernardins. Il volume è pionieristico per molti aspetti, come viene già indicato nella prefazione a firma del Cardinale Gianfranco Ravasi. Non solo per il “trisagio” a cui si riferisce il titolo: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti” sta scritto in Isaia (6.3) che qui diventa appunto tre volte sarto, rivestendo Iddio Adamo ed Eva all’uscita del Paradiso terrestre di una tunica di pelle cucita, così avviando una relazione che si snoda nei racconti biblici, come vedremo, e producendo un guardaroba tessile, concreto e metaforico. Ma anche, e soprattutto per gli studiosi di moda, perché scioglie ciò che è sempre apparso come uno stereotipo, se non come un vero e proprio bias nelle scienze sociali, quello di una relazione profonda tra moda e religione. Se infatti per la religione si è preferito sempre riferirsi ad abito, veste, comportamento, norma non diversamente da quanto per il guardaroba non-occidentale era fino a un recente passato usuale riferirsi a costumi immutati e non a moda dinamica, ecco che l’autore non solo denuncia questa incongruenza, ma proprio di moda e religione vuole trattare. Per farlo, e questo è a mio modo di vedere ciò che rende prezioso il volume — che ci auguriamo possa ispirare nuove ricerche in questa linea di pensiero — mette per la prima volta a confronto l’ontologia del sistema della moda moderno, la sua natura, interpellandone i principali teorici, con la teologia religiosa. “Se esiste una teologia del vestito”, scrive infatti Alberto Fabio Ambrosio, “non ne esiste una della moda (vestimentaria)” (p. 48). Evento in sé peculiare, dato che vestito e moda sono oggi un binomio inscindibile, come giustamente ricorda l’autore, e l’appartenenza dell’abito a un sistema della moda codificato ed ecumenico, è una delle caratteristiche della nostra epoca. Occorre quindi, scrive Alberto Fabio Ambrosio, rivalutare la moda, e ancora una volta ri-semantizzare l’attributo di frivolo ad essa associata, come già fece Elizabeth Wilson, ma rapportando ora queste nozioni, o per meglio dire, inscriverle per la prima volta in una teologia religiosa. Tutto quindi si complica, o forse si chiarisce. La competenza e precisione filologica e filosofica dell’autore gli consente di avventurarsi in terreni a dir poco insidiosi. Vero che una recente mostra al Metropolitan Museum di New York , “Heavenly Bodies. Fashion and the Catholic Imagination” (2018) ha provato a trattare questi temi, ma non diversamente da quanto accaduto già per un’altra mostra sempre al Met, “China Through the Looking Glass” (2015) ha solo mostrato una strada e non la cartografia in cui essa è collocata. Forte dei suoi studi sul sufismo turco, denso di un misticismo in cui la veste ha un ruolo preciso, Alberto Fabio Ambrosio osa l’inosabile. Che cosa individua l’autore in questo nuovo percorso finora inesplorato? Prima di tutto che, tralasciando la questione morale che pertiene più alla legiferazione del lusso che alla teologia, la Chiesa non è contro la moda, non lo è mai stata, se non come altri sistemi di pensiero possano esserlo stati in passato, con l’incedere della modernità; fu Papa Pacelli a sostenerlo apertamente, specialmente riconoscendone la dimensione sociale. E sull’altro versante, diciamo così, il sociologo Pierre Bourdieu, quasi in risposta all’antropologo Marcel Mauss, affermava che la sociologia delle religioni dev’essere oggi ricercata nell’alta moda (p. 59) in quanto mondo magico. Cito: “Queste riflessioni non possono fare altro che condurre a pensare l’origine stessa del vestito come un mistero, o meglio, come l’idea originaria del vestito si relazioni all’idea di mistero.” (p.46). Ma torniamo a Dio tre volte sarto. Tre sono i momenti fondanti, scrive l’autore, di una teologia del vestito a partire dalla Bibbia. È Dio stesso, come accennato, a cucire un abito per Adamo ed Eva: un’effimera tunica di pelle che sarà cessata con il cessare della vita terrestre della coppia d’origine (p. 95). Il secondo momento è individuato nella Passione di Cristo, quando i soldati fanno a pezzi le vesti, del Nazareno, quattro pezzi quanto il loro numero e se le spartiscono. Ma la tunica di Gesù è indivisibile, dunque se la tirano a sorte. Questa tunica, molto interessante, è senza cuciture, come indicato nel Vangelo di Giovanni. Ed è proprio in questa tunica indivisibile, o meglio ai suoi rimandi, che l’autore vede l’analogia con il sistema della moda. “Non è Cristo, né tantomeno la tunica ad assomigliare al sistema moda… ma è la vita del vestito nell’ambito della moda che nascondono, in ultima analisi, la somma importanza della veste di Cristo” (p.98). L’abito drappeggiato senza cuciture, occorre ricordare, è caratteristico dell’antropologia vestimentaria asiatica, e si situa in un’opposizione semantica carica di conseguenze culturali, a quello tagliato e cucito della tradizione sartoriale occidentale. I primi ad elaborare una moda a partire dal superamento di questa opposizione furono i designer giapponesi negli anni Ottanta del secolo scorso, che utilizzarono entrambe le tecniche, dopo averle accuratamente decostruite, ma ora possiamo forse ripensare questa primogenitura. Il terzo riferimento è all’Apocalisse, la veste bianca che rende beati coloro che la laveranno e così facendo diventeranno loro stessi puri; una veste bianca che è anche sacra, forse il simbolo stesso della resurrezione, che va oltre il cucito e il drappeggiato per portarci in una dimensione rarefatta, proiettata nell’eternità, molto simile a quanto la moda cerca di fare ad ogni nuova stagione: presentarsi oltre il transeunte, oltre l’effimero.
Alberto Fabio Ambrosio, Dio tre volte sarto. Moda, chiesa e teologia. Prefazione del Cardinale Gianfranco Ravasi, Vestire l’indicibile. Moda e religioni, Mimesis, 2020
Pubblicato: 2020-12-22