Il libro, frutto di un’importante e approfondita ricerca d’archivio, ricostruisce la storia del sistema moda italiano e di quello francese nel Secondo dopoguerra da un punto di vista particolare: quello delle organizzazioni di categoria. Basandosi principalmente su fonti documentarie, offre un preciso quadro delle teorie, dei progetti e delle attività di cui ciascuna associazione si fece promotrice con l’obiettivo di creare basi solide per lo sviluppo della moda dei due paesi.
I due sistemi non potevano essere più diversi: il primo stava nascendo insieme al repentino successo dell’Italian Style e il secondo, ormai centenario, si trovò ad affrontare il canto del cigno della haute couture: l’ascesa del fenomeno Dior avvenne contemporaneamente alla chiusura della maggior parte delle più illustri maisons de couture/creation. Come scrive l’autore, a Parigi, fu la Chambre Syndicale de la Couture, nata ufficialmente nel 1910 e talmente coesa da riuscire a salvare il sistema moda parigino dalle mire naziste durante la Seconda guerra mondiale, a dover affrontare “il pericolo dei cambiamenti dei consumi e del mercato” che stava mettendo a rischio quello che era ritenuto un patrimonio culturale francese: la haute couture, ma anche la produzione tessile più creativa e raffinata. Invece di affrontare la trasformazione, ingaggiò una battaglia di retroguardia per sostenere la ripresa/sopravvivenza di un sistema moda tanto carismatico quanto vecchio, chiedendo e ottenendo (come spesso accade) finanziamenti allo Stato. Gli ingenti fondi stanziati fra il 1951 e il 1959, utilizzati principalmente per pagare i tessuti francesi impiegati dalla couture, non furono però in grado di fermare il processo sociale che portò a un radicale mutamento del consumo di abbigliamento sostituendo il tradizionale sistema artigianale su misura (creativamente guidato dall’haute couture) con la confezione su taglia. Il bilancio, come ricorda l’autore, fu impietoso: “nella maggior parte dei casi è servito a prolungare l’agonia di quelle imprese che si trovavano già in difficoltà” oppure favorì aziende in pieno sviluppo “grazie alla creazione e commercializzazione di profumi”. La svolta, ancora una volta compiuta dalla Chambre, avvenne nel momento in cui si capovolse la prospettiva, puntando l’attenzione sulla forma più avanzata del mercato, quello americano, e mutando totalmente strategia di comunicazione.
Per quanto riguarda l’Italia, il problema era far nascere da una catena produttiva concepita in funzione dei consumi interni un sistema moda competitivo sul mercato internazionale, non sempre ben identificato. La difficile gestazione vide in campo soggetti e opinioni differenti che si misurarono e si contrapposero anche attraverso la formazione di più o meno piccole associazioni di categoria ognuna delle quali si fece promotrice di un’idea di sviluppo della moda italiana, chi tentando di recuperare i modelli del periodo fascista, chi perseguendo l’esempio francese, chi provando a importare idee americane. Il dibattito fra vecchio e nuovo durò quasi vent’anni, durante i quali Enti, Associazioni, Centri, Comitati si costituirono in città diverse, ognuna delle quali rappresentava una diversa prospettiva di sviluppo anche per la moda. Non a caso, infatti, Roma, forte di un’antica aristocrazia, ma anche del suo nuovo ruolo di Hollywood sul Tevere, si fece paladina del primato dell’alta moda, mentre l’industriale Torino, poco disposta a perdere la centralità che il Regime le aveva attribuito negli anni ’30, sosteneva per la moda un ruolo più subordinato alla produzione tessile, ma anche un’apertura nei confronti della confezione. Milano, dal canto suo, si dibatteva tra la riorganizzazione della vecchia sartoria, le forme innovative di produzione e la ricerca di nuovi strumenti di comunicazione.
La rottura rappresentata da Giorgini e dalla sua decisione di mettere la moda italiana in diretto confronto con il mercato americano non pose fine né al dibattito, né ai conflitti. Come ricorda l’autore, il 17 febbraio 1951 il Presidente della Repubblica firmò il decreto che conferiva riconoscimento giuridico al “torinese Ente Italiano della moda” (destinato a rimanere “pressoché inattivo fino alla fine degli anni Cinquanta”). Erano passati cinque giorni dalla sfilata organizzata da Giorgini a Palazzo Torregiani.
Si dovettero aspettare gli anni ’60 perché la Camera Nazionale della Moda cercasse di dare una organizzazione unica a un sistema ormai cresciuto e con prospettive di mercato più chiare in cui l’alta moda veniva considerata insieme con le sartorie, ma soprattutto con i creatori di moda boutique, i confezionisti, i pellicciai, i modisti, i produttori di accessori e infine anche con l’alta moda maschile, la maglieria e il settore biancheria. Il perimetro del sistema moda italiano si era alfine configurato cercando di includere tutti i suoi protagonisti.
Il percorso, però, era solo all’inizio: sia a Parigi sia in Italia ci si dovette presto confrontare con l’inarrestabile espansione del prêt-à-porter.