Definire i futuri - note preliminari
Per definire l’ambito preciso di questa ricerca, è necessario stabilire dei paletti metodologici cui ci siamo sottoposti. Ancora di più se si sceglie come punto focale il futuro. Scegliere di parlarne, infatti, riguardo alla moda, sfiora la tautologia: i due concetti sono così strettamente legati che spesso sembrano essere sovrapposti. È inevitabile pensare al futuro quando si parla di moda, perché esso è insito in essa, nella direzione in cui essa si muove e negli obiettivi che vuole raggiungere. Nel fortissimo legame che lega la temporalità (passato, presente, futuro) alla moda, l’ultimo dei tre è sicuramente quello che più si avvicina alla sua essenza: quella di cosa sempre nuova1.
Per questo motivo appare necessario distinguere bene le diverse accezioni che vi sono dietro alla parola futuro. Prima di tutto vi è il suo concetto meramente temporale come parte integrante della ritmicità della moda (con i suoi ritorni ciclici, con i suoi sguardi al futuro e i suoi ripiegamenti nel passato). Un’altra modalità in cui la moda e il futuro interagiscono è il movimento che compiono alcuni fashion designer nell’immaginare il futuro attraverso le loro collezioni, attingendo direttamente da un particolare bacino di immaginario oppure in altri casi essendo essi stessi a crearne uno.
Focalizzarsi su questa tipologia di futuro significa indagare l’atmosfera culturale nella quale il fashion designer si trova a operare, e al tempo stesso scorgere, come se fosse una cartina di tornasole, la direzione in cui ci muoviamo e in cui si muovono le nostre aspettative. Sempre per l’idea che la moda scorra diretta verso il futuro, quando i fashion designer decidono di inventarlo e renderlo nei suoi aspetti materici — forme, materiali, atmosfere — forniscono una lettura tanto sul mondo avvenire, quanto su quello attuale.
E quindi, in questo senso, bisogna considerare il futuro inventato dai fashion designer sotto il segno dell’ucronia2. Costruita sul calco della parola utopia3 (letteralmente non-luogo, qualcosa che non esiste), l’ucronia è invece un tempo che non esiste. Di fatto, questo secondo tipo di futuro compie un salto cronologico in avanti. La collezione che vuole anticipare il futuro presenta sempre uno scarto tra il tempo attuale, in cui essa sfila e messa in commercio, e il tempo immaginato, che descrive un mondo non ancora esistente.
Nonostante il termine ucronia sia stato utilizzato da Roland Barthes nel suo Il Sistema della moda4 per indicare un aspetto che coinvolge interamente la moda5, ci sembra che l’ucronia sia ancora più calzante in questo caso. Di fatto, quando il fashion designer decide di creare attraverso la collezione una finestra sul futuro, apre un orizzonte su un tempo inesistente, che mira ad attuarsi solo nella finzione dell’atto performativo della sfilata e nel momento in cui vestiti vengono acquistati e indossati (quando questo è possibile), ma non anticipa effettivamente i vestiti che verranno portati nell’avvenire.
Patrizia Calefato scrive nel capitolo dedicato al tempo in The Clothed Body:
Modern science fiction imagery, from Jules Verne to Philip Dick, has show itself to be a fertile inspiration for and anticipation of present reality. The reality had led us, in a very short time, to wear almost exclusively fabrics of carbon fibre, polyurethane, rubber or plastic, which are no longer sewn but soldered, cut by laser, enriched with liquid crystals or crystals sensitive to thermofusion, so that they ‘mutate’ according to light and temperature; all very Blade Runner.There was no need to wait 2000, materials like these already inhabitated our wardrobes and some of them were even ‘ancient’ if we consider lycra, microfibre, etc. […] The diffusion is even greater than we think: the future is already here.6 (corsivo mio)
Ciò che ci interessa di più delle parole di Calefato è l’aver individuato il punto fondamentale di questi balzi verso il futuro. C’è un altro tipo di futuro che si manifesta e costruisce proprio a partire dal presente e che non comporta divaricazioni temporali. Affermando che the future is already here, Patrizia Calefato si riferisce a un futuro effettivo che si stabilisce in fieri nell’utilizzo e nel consumo degli abiti e che ha come agenti non solo i fashion designer, ma gli stessi consumatori. Una terza altra tipologia, che per distinguere dalla seconda, potremmo definire ongoing future, quello che si costruisce man mano che la moda cambia e che non può essere controllato in maniera specifica e assoluta da un singolo agente (ad esempio, un fashion designer).
In altre parole, se prendiamo l’esempio della space age, sul finire degli anni ’60, fashion designer come Pierre Cardin, Paco Rabanne o Courrège non hanno predetto effettivamente i vestiti che avremmo indossato poi nel 2000. Li hanno immaginati, servendosi di materiali innovativi, ma quelle collezioni e quegli abiti parlavano molto più del tempo presente e di ciò che accadeva allora. Essi hanno creato uno spazio di futuro ucronico che non si è rivelato realistico, quando abbiamo iniziato a vestirci negli anni 2000.
Il futuro immaginato dai fashion designer della space age ci ha fornito una parziale visione sul futuro, i vestiti che invece sono stati concepiti, prodotti e indossati negli effettivi anni 2000 sono frutto dell’ongoing future.
In questo gap temporale si consuma la fondamentale differenza tra futuro immaginato e l’ongoing future.
Ricapitolando l’intricata trama tra le diverse tipologie di futuro considerate, c’è un futuro che può essere immaginato dai fashion designer ma che non si attualizzerà mai: è solo una visione, uno scorcio, una prospettiva. Questo l’oggetto di questa ricerca: tentare di concepire cosa accade attraverso questo cortocircuito temporale tra il tempo immaginato e il tempo attuale, che sono gli assi in cui si muovono le collezioni dei designer che si sono occupati di immaginare e materializzare il futuro.
Dall’altra parte, c’è il futuro reale, in corso d’opera, che non può essere calcolato, ma che la moda continua a portare avanti, nell’incessante lavorio della sua macchina creativa e capitalistica.
Immaginare il futuro I — space age
I progressi nei viaggi spaziali, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica promettono l’ingresso in un’«era spaziale» nell’immediato futuro e proprio i temi del viaggio spaziale e del futuro sono prevalenti nella cultura popolare, dai film di fantascienza ai prodotti per la casa alla moda. l’Esposizione Universale del 1962 a Seattle è anche chiamata «L’esposizione del XXI» e lo Space Needle (che assomiglia a un razzo ed è la torre simbolo della città) domina la fiera.7
Questo passaggio contenuto nella Storia della moda di Daniel James Cole e Nancy Dehil, appare interessante perché è il cappello introduttivo del decennio 1960–1969. Questo, per altro, è intitolato dagli autori La moda per il futuro. In effetti, il passaggio condensa in poche righe un clima culturale generalizzato di propensione verso il futuro. Jurij Gogarin, nel 1961, è il primo uomo a raggiungere, su un satellite russo, lo spazio. Da questo momento in avanti, una vera e propria «corsa allo spazio» si attua tra gli Stati Uniti e il blocco sovietico. Una serie di competizioni tecnologiche porteranno poi nel 1969 allo sbarco di Apollo 11 sulla luna. Durante l’Esposizione Universale di Osaka, nel 1970, il padiglione degli Stati Uniti presenta una pietra proveniente dalla luna. La stessa esposizione termina con la creazione di una capsula del tempo8, costituita da circa 2000 oggetti di uso quotidiano e non, e la sua sepoltura, con l’intento di riaprirla soltanto cinquemila anni dopo. Il 1968 è invece l’anno di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrik.
La space age sarebbe, dunque, la risposta stessa della moda a un clima spaziale, a visioni lunari pervasive nella società e a esigenze di respiro verso il futuro. Il lavoro di Courrège, Cardin e Rabanne, con le loro linee geometriche e pulite, la prevalenza del bianco, i materiali innovativi, l’utilizzo di componenti metalliche, le cuffiette da era spaziale, è servito a consolidare quella spinta propositiva che, a poco più della metà del XX secolo, guardava al futuro degli anni 2000. Il tempo immaginato di questa soglia storica è però un tempo mai effettivamente realizzatosi. In questo senso l’universo creato dai fashion designer nel vestire uomini e donne come se dovessero vivere in orbitanti navicelle spaziali è ucronico: inattuabile, irrealizzabile. Gli anni 2000 hanno comportato altro, gli uomini e le donne hanno indossato altro rispetto a quello che questi fashion designer postulavano.
Sicuramente da questo momento in avanti si è però consolidato uno stile iconografico ben preciso, caratterizzato dalla prevalenza del bianco e dalle linee pulite, a cui altri fashion designer posteriori hanno avuto la possibilità di rifarsi, come per esempio nella collezione fall 2017 ready-to-wear di Karl Lagerfeld per Chanel, in cui le modelle hanno sfilato nel Grand Palais trasformato in una centrale astronomica con annesso finto lancio di un enorme razzo-satellite al centro della passerella. Anche in questo caso i dettagli e i materiali utilizzati rimandavano alla sfera della space age: argento, bianco, pulizia, dettagli plastici e metallici. Addirittura patterns formati dalla ripetizione insieme di tute da astronauta sottolineavano i rimandi a questa specifica iconografia.
Se, dunque, citare la space age è necessario per entrare nella dinamica temporale che si istaura quando il futuro viene immaginato dai fashion designer, è altrettanto necessario chiedersi a che cosa serva a questo punto il movimento di costruire un futuro non si realizza mai. Certamente la space age ci insegna che esso è capace di permanere nella forma iconografica di stile da poter riprendere, ri-sviluppare, ri-costituire, ma ciò non ne cambia la sostanziale ucronia.
È chiaro a questo punto che parlare di futuro immaginato sia importante sì per comprendere a fondo la visionarietà dell’uomo capace di spingersi molto lontano attraverso la fantasia e gli immaginari, ma soprattutto perché scavare dietro a tale operazione è utile per capire a fondo il presente. Ogni spinta compiuta verso il futuro è, di fatto, una risposta a un preciso e determinato presente storico.
Immaginare il futuro II — post-apocalittico
Gli anni in cui si muovono, invece, stilisti come Rei Kawakubo e Yojii Yamamoto sono sostanzialmente differenti. Entrambi sfilano per la prima volta a Parigi nel 1981. L’impatto che i due fashion designer hanno avuto sul mondo della moda è stato di dichiarata rottura. In un articolo di Dazed and Confused sulla storia di Comme des Garçons, Jack Sannucks intitola il primo paragrafo della lista A for Apocalypse e scrive:
When Kawakubo and her compatriot Yohji Yamamoto first showed in Paris in the spring of 1981, it had a seismic effect on the gathered fashion press. It was the opposite of the high fashion norm at the time, all Gianni Versace glamazons and wide shouldered Thierry Mugler tailoring. Their wild volumes, piratical cuts and disdain for gendered clothing, in an all black palette, were deemed apocalyptic, and in new lows of fashion criticism, ‘Hiroshima chic’ and ‘the bag lady look’. More fool them – over thirty years later, Kawakubo’s radical departure from fashion norms is seen as one of the defining moments in modern fashion, on the back of which she’s built an empire. The Comme des Garçons show is still a highpoint of the Paris schedule.9
Il termine apocalisse, anche al di fuori dell’area semantica religiosa, indica comunque una catastrofe annunciata nel futuro, un accadimento distruttivo non precisamente individuabile nel tempo. Il lessico utilizzato dai giornalisti10 per definire lo stile dei nuovi fashion designer giapponesi entrati in scena, e in particolar modo in riferimento a Rei Kawabuko, è essenziale per comprendere come il loro apporto alla moda abbia cambiato le regole, ma soprattutto per individuare la chiave di lettura necessaria utile a questa ricerca.
Definire qualcosa come apocalittico significa iscriverlo in una dimensione di per sé futura, o ancora meglio: che riguarda un futuro più o meno prossimo in cui una catastrofe si abbatte sull’umanità. In che termini i giornalisti abbiamo visto questo processo, è da ricercare nelle collezioni stesse.
Fin dagli inizi, Rei Kawakubo propone una nuova e complessa idea di costruzione dell’abito. Binomi come ordine/caos, costruzione/decostruzione11 sono termini chiave per la lettura dei suoi abiti. Essi presentavano tagli, volumi, protuberanze, le linee del corpo erano sovrastate da nuove e altre linee imposte dagli abiti, il nero imperava su tutti gli altri colori. Rei Kawakubo iniziava a profilare una nuova silhouette, che sembrava in qualche modo manomettere la lineare forma del corpo umano.
Utilizzare la parola apocalisse per descrivere le collezioni di Rei Kawakubo significava porre l’accento su un’idea, nuova, di corpo che sembrava essere sopravvissuto a una catastrofe. In qualche modo, Rei Kawakubo ha come immaginato un futuro in cui l’umanità sopravvive a un cataclisma: i corpi ne vengono condizionati dalla radioattività, i vestiti stessi sono consunti (sembra che siano stati effettivamente consumati da qualcosa).
Una lettura univoca di Comme des Garçons risulta quantomai complessa, soprattutto se consideriamo nella visione post-apocalittica delle collezioni di Kawabuko vi è come una traccia di un trauma, un lascito non ancora risolto. Viene in mente che, ad esempio, eventi della portata dello scoppio della bomba di Hiroshima e Nagasaki sono in grado di segnare così tanto la memoria collettiva da provocare sintomatologie del rimosso (in termini psicoanalitici) anche a distanza di generazioni12. In questa sede, però, una lettura traumatica del lavoro di Rei Kawakubo è a ogni modo fuorviante, ma accennarlo ci aiuta a leggere la natura di tale futuro immaginato e proposto dalla fashion designer. Sostanzialmente diverso da quello positivo e bianco della space age, il futuro proposto dai giapponesi è marcatamente negativo. Il colore nero è prevalente, l’armonia delle forme praticamente assente.
Da questo momento in avanti, l’attenzione di chi indaga su prospettive future nella moda, appare concentrarsi proprio sulla figura fisica. A tal proposito lo stesso Svendsen scrive che «nell’età postmoderna la costruzione dell’identità personale è in misura preponderante una progettazione del corpo. Il fisico tende a diventare l’elemento fondamentale nella comprensione della propria identità13.» Gli anni ’80 sono stati, in effetti, gli anni in cui il corpo ha acquistato una centralità nuova, si potrebbe dire quasi materica. I corpi che per lo più sfilavano in passerella erano corpi sovraesposti. La silhouette imperante aveva le spalle larghe, i fisici torniti, vividi e tonici.
In parallelo a queste manifestazioni, dunque, è inevitabile che la stessa Rei Kawakubo convogliasse le proprie riflessioni proprio sul corpo. Quello da lei proposto si muove in aperta controtendenza da queste ultime. Nella dimensione apocalittico-futura di Comme des Garçons la catastrofe ha come condizionato il DNA dei corpi, vi è un cambiamento biologico. Se prendiamo in considerazione la sua più iconica14 collezione s/s del 1997, Body Meets Dress, Dress Meets Body riscontriamo la stessa attitudine alla deformazione fisica, sottolineata ancor di più in questo caso dalla scelta di un materiale ‘quotidiano’ e familiare come il vichy, e con pattern anche loro piuttosto confortanti come il tartan a quadretti. Gobbe, protuberanze, rigonfiamenti in punti non previsti dalla sintassi del corpo umano creano un effetto di straniamento e inquietudine. Non vi è nessun tipo di regolarità, vi è malformazione in questo futuro immaginato.
Alla luce della nostra lettura che guarda ai panorami futuri portati avanti dai fashion designer, la tappa a cui giunge Kawakubo è fondamentale perché segna non solo un punto di svolta, ma anche una base di partenza per tutti gli altri futuri immaginati da questo momento considerato in avanti. Il corpo viene modificato, fortemente manomesso, in una prospettiva sempre ucronica: Rei Kawakubo nell’impasses del suo futuro impossibile parla alla sua contemporaneità portando alla luce un fondo di malessere e di negatività.
Se consideriamo come luogo di questa rappresentazione il mondo della moda, in cui sembrano condensarsi tutti i sogni e le pulsioni della società, ancor di più l’emersione di una prospettiva apocalittica ottiene una forza sovversiva. I suoi corpi in passerella sopraggiungono alla visione del pubblico trascinandosi dietro di sé i cumuli e i lasciti di un evento mortale. Essi sono i fantasmi di un futuro in cui qualcosa non è al suo posto e la loro forza è riportare alla mente il fastidio di una presenza scomoda alle spalle e al tempo stesso l’incapacità di elaborarla in termini organici e ben definiti.
In questo senso il futuro immaginato, ribadiamo, non è mai un’effettiva predizione di una nuova era, ma è sempre in strettissima relazione con gli anni in cui esso prende forma e si sviluppa, diventandone un indicatore, una sorta di bussola per la loro lettura.
Immaginare il futuro III — alieno e oltre-umano
L’approdo di Rei Kawakubo risulta fondamentale dunque, perché si posiziona come iniziatore di un processo di riflessione sul corpo, che simultaneamente assorbe e riconsegna la traccia dei movimenti che affliggono l’ambito della vita umana nella contemporaneità.
Se davvero il futuro immaginato dai designer è una finestra che sembra guardare in avanti ma che invece guarda sempre al presente, è necessario spogliarlo della sua natura e leggerne gli aspetti più contingenti con l’attualità. I corpi malformati di Rei Kawakubo esprimono l’esigenza di puntare lo sguardo su un malessere sostanziale, pervasivo alla società. Da questo momento in avanti, per la moda, sarà sempre più complicato concepire una linea di futuro positiva, nonostante il rigoglio tecnologico delle scoperte che ha segnato l’inizio del nuovo millennio. O piuttosto — dovremmo dire — a maggior ragione.
Guardando agli impulsi futuristici dei designer dopo l’operazione di Kawakubo, è facile riscontrare un’aria negativa e pessimistica nella realizzazione del loro immaginario. La space age sembra lontanissima, e di essa rimangono pochissime tracce, del tutto anacronistiche e improntate molto più sull’estetica che sul contenuto. L’atmosfera si è stazionata in un’ambientazione che riscontriamo già dai romanzi di Philip K. Dick, passando per Matrix dei fratelli Wachowski, fino agli odierni colossal su catastrofi, invasioni aliene e futuri cibernetici. A ben guardare, infatti, più che di utopia, in questi nuovi futuri bisogna parlare di distopia, che è il suo totale opposto: essi ci parlano sempre di un mondo in disfacimento, di un futuro sbagliato in cui qualcosa è andato storto.
Così viene in mente il lavoro teorico di Hartmut Rosa15, innegabilmente un presupposto fondamentale per tali osservazione. La sua teorizzazione di una progressiva accelerazione «della velocità della vita, della storia, della cultura, della vita politica o della società o addirittura del tempo in sé16» intende dichiaratamente indagare su questo malessere di fondo che pervade la società della tarda modernità non ancora espresso definitamente in qualcosa, quasi come fosse un pulviscolo in grado di pervadere l’intera atmosfera della terra.
Nella sua teorizzazione dell’accelerazione, Rosa compie un tentativo di strutturare una metodologia d’analisi che possa concretizzare un concetto di malessere tanto diffuso quanto impalpabile. I motivi di un tale cambiamento nel mondo vengono rintracciati da lui nell’accelerazione tecnologica, in quella dei mutamenti sociali e in quella del ritmo di vita. A ognuna di queste fa corrispondere una differente forma di alienazione, infatti scrive: «l’accelerazione sociale implica scavalcare certi confini al di là dei quali gli esseri umani divengono necessariamente alienati non solo dal loro agire, dagli oggetti con cui lavorano e vivono, dalla natura, dal mondo sociale e da se stessi, ma anche dal tempo e dallo spazio17».
In altre parole, Hartmut Rosa arriva a comprendere le dinamiche che sono alla base della frattura creatasi tra l’io e il mondo nella tardamodernità. Molto di più cerca di darne una struttura di senso. Questa frattura ha il nome di alienazione (in senso marxista, ma con i dovuti aggiustamenti) e alla sua luce leggeremo le derive intraprese dal futuro che viene immaginato dai designer.
Nel tentativo di definire come l’accelerazione sociale e l’alienazione che ne consegue abbia contaminato il modo di immaginare il futuro da parte dei designer, abbiamo stabilito una possibile biforcazione di immaginari. Se da una parte alcuni designer si sono spinti a immaginare un futuro marziano, in cui i corpi sembrano essere stati contaminati da sostanze extraterrestri, innestati da macchine, a metà strada tra un alieno e un cyborg (futuro alieno), altri hanno sentito imperante il bisogno di negare la natura stessa del corpo umano, smaterializzandolo e superandone la regolare articolazione (futuro oltre-umano). In entrambi i casi, che i corpi diventino mostruosi o diversamente si stemperino in forme totalmente non-umane, la linea di questi futuri sembra la stessa: partire da un corpo non più percepito come familiare e attraverso di esso esasperare il più possibile il senso di non-appartenenza. Esattamente come suggerisce Roberto Marchesini nel suo Post-human: «Se analizziamo le diverse proposizioni riferite al corpo, che si affacciano nell’ultimo decennio del XX secolo, scopriamo che vanno tutte nella direzione di una sostanziale riprogrammazione somatica, vuoi di ordine esclusivamente emendativo, vuoi nel senso più libero di una vera e propria riconfigurazione strutturale e funzionale18».
Futuro alieno
La radice del termine ‘alienazione’ ha a che vedere con l’alterità, con l’altro rispetto a noi. Tenendo bene in mente la sua accezione primaria, è facile comprendere come questa etimologia giochi in favore di questa particolare forma di futuro immaginato, ovvero quello, appunto, alieno. Sia nell’accezione di alienato, quindi derivazione diretta di quella frattura io-mondo della tardamodernità, di cui parla Rosa, sia perché nella sua sintomatologia estetica prende la forma di un’iconografia precisa: quella degli extraterresti, da sempre gli “altri” per eccellenza rispetto all’umanità19.
Otherwordly20 è il termine utilizzato da Greg French per considerare questa particolare forma di futuro immaginato all’interno della pubblicazione omonima, editata assieme a Theo-Mass Lexileictous. Il termine appare quanto mai appropriato perché condensa tutta l’atmosfera di questa visione futuristica: un’estetica che palesa la sua provenienza da un altro mondo, da un altro pianeta. Greg French stesso spiega: «It is a tool – a powerful tool for radically altering the world we see around us21».
Vi è dunque nella scrittura di French e nell’editing di Theo-Mass Lexileictous un’evidente accezione positiva. Essi vedono dietro alla parola otherworldly la possibilità di remaking our realities22, attraverso lo strumento della moda, della fantasia e della postproduzione, perché consapevoli di una totale libertà di creazione e manomissione della realtà, grazie alle nuove tecnologie. Da questo punto di vista il termine ha effettivamente un’accezione positiva, si può leggerne anche la controparte negativa, che si cela appunto nel suo risvolto.
Se prendiamo come riferimento le collezioni di Iris Van Arpen e Thierry Mugler è palese una linea comune: il tentativo di raccontare una vita extraterrestre, con l’utilizzo di materiali tecnologici, con tecniche d’avanguardia, con delle forme evidentemente aliene e delle atmosfere dal sapore marziano. Entrambi agiscono su e attraverso il corpo umano, deviandolo su altri pianeti. In altre parole, ne disconoscono l’appartenenza alla Terra.
Decidere di mutare il corpo, significa assumersi la responsabilità di una lunga serie di tentativi – non per forza contemporanei: non è certo recente l’esigenza di mascherare o modificare il corpo — di riprogrammazione. A rendere però così urgente e attuale l’azione è proprio la possibilità data dalle innovazioni tecnologiche di considerare il corpo come un vero e proprio luogo di manomissione, un campo libero in cui agire. Interventi chirurgici, innesti meccanici e protesi sono solo alcune delle innovazioni che hanno radicalmente cambiato la nostra vita e quella del nostro corpo.
Ciò che la moda fa in questo caso è palesare il cambio radicale esasperandolo in tutti i suoi aspetti, esagerandone la portata, sbalzando la figura umana in una dimensione oltre natura.
Se «il corpo contemporaneo è un corpo bionico, un misto di tecnologia e biologia23», è più facile comprendere cosa si cela dietro alle nebulose sculture di ferro e plastica degli abiti di Iris Van Arpen. La fluidità catturata in materiali solidi, resinosi o metallici che siano, condensa un’atmosfera rarefatta, in cui non vi è niente di umano se non il corpo della modella che indossa l’abito.
Allo stesso modo, Thierry Mugler ammanta tutta la sua produzione, compresa la sua serie di profumi, della stessa atmosfera extraterrestre. Nella collezione Spring couture 1997, Les Insectes, le modelle avevano subito un processo di ibridazione con il DNA degli insetti: antenne, frange tramutate in aculei, gusci ed elitre di pelle ricoprivano i loro corpi. L’ibridazione animale sembra un tratto distintivo di Mugler, che tocca l’apice nella progettazione di un capo di haute couture nella stagione fall-winter del 1997-1998, La Chimère. Adriana Karembeu viene trasformata in una creatura squamata di paillettes e perline variopinte, con un copricapo di piume e un busto dorato. Egli stesso afferma: «The potential of your body is endless24».
Così, molti altri designer, sulla loro scorta, come Nixi Killick, Nikoline Liv Andersen, Tanel Veenre e Peter Popps (tutti presi in considerazione all’interno di Otherwordly) continuano a fabbricare un futuro irraggiungibile che non riconosce più la terra come suo luogo d’appartenenza, palesando attraverso gli abiti il processo di alienazione, che colpisce il corpo come anche lo spazio stesso. Un habitat ormai non più riconoscibile, il trionfo dei «non-luoghi25».
Futuro oltre-umano
In una campagna pubblicitaria della spring/summer 2018, Graig Green sceglie di mostrare solo particolari pezzi della sua collezione. Essi sono sostanzialmente diversi da tutti gli altri presentati in sfilata: delle bande di tessuto stretch di jersey tenute in tensione da una struttura portante in legno e da corde. Se questi outfit indossati nel catwalk dai modelli sovrastano completamente la figura umana cancellandola, nella campagna pubblicitaria sono presentati come meri oggetti, issati su un’asta di metallo e un piedistallo. La campagna presenta un dittico fotografico: da una parte il capo, che ricorda vagamente un telaio, nella sua interezza e presenza oggettuale, dall’altra il capo consumato dalle fiamme.
In un’intervista per CNN style, Craig Green stesso specifica a riguardo: «It’s that idea of ripping things up and starting again, which is what you always do in fashion, “he continued.” Ripping up ideas and smashing out new and stranger things — probably better ideas in the end, anyway26».
Ciò che più ci interessa di tale operazione non è tanto l’idea della distruzione e la conseguente metafora del suo processo creativo, quanto il fatto che il corpo venga prima riconsiderato e nascosto in passerella, e addirittura eliminato nella campagna pubblicitaria. Il capo sembra aver conquistato una sua autonomia, non solo nella possibilità di mostrarsi non indossato da un corpo, ma anche nella sua stessa strutturazione. Questi capi nonostante possano essere indossati da corpi, non ne considerano la regolare sintassi, bensì la ignorano completamente. I modelli in passerella risultano coperti nei tratti del volto, nelle braccia e nelle gambe, essi vengono completamente nascosti dalle strutture di legno. L’autonomia dei capi nelle loro apparizioni rende inevitabile la domanda: dov’è finito il corpo umano, da sempre punto focale di tutta la gamma di operazioni che è in grado di compiere la moda?
Se prendiamo in considerazione NOT A TOY. Fashioning Radical Characters dall’editing di ATOPOS Contemporary Visual Culture con la direzione artistica di Vassilis Zidianakis, ci rendiamo conto che la domanda risulta sempre la stessa. Lo stesso artistic director afferma nell’introduzione: «There are examples from ninety emerging and established international designers and artists showing us the endless transformations of the human figure, by wrapping the body, masking the face and distorting the human shape. […] we are attempting to describe the potentials and limits of the human figure, by observing these ‘atopic’ Characters taking over the catwalk and beyond27».
Il punto di partenza di NOT A TOY è di cercare una linea che accomuni tutti i tentativi di metamorfosi del corpo umano, percepita ormai come fenomeno sostanziale per l’andamento della moda contemporanea. E questo lo rivela anche la mostra Utopian Bodies. Fashion Looks Forward allestita nella galleria d’arte Liljevalchs a Stoccolma, curata da Sofia Hedman e Serge Martynov, che sceglie di occuparsi espressamente del futuro della — e nella — moda, passando attraverso l’immaginazione e la progettazione dei corpi28.
Come in Otherworldly, Utopian Bodies rivela l’intento dei curatori nel delineare una prospettiva essenzialmente positiva in questa ricerca del futuro immaginato dai designer. Motivo che spinge Ane Lynge-Jorlén e Philip Warkander ad affermare: «The consequence of outlining the future of fashion in optimistic, theatrical scenarios, which is the premise of utopias, is that Utopian Bodies does not fully realize its potential as an exhibition supported by critical thinking by offering a critique on the fashion system and convincingly pointing towards new possibilities29».
Che il corpo umano venga manomesso, deformato, mutato, sembra essere ormai un punto fermo, ma delle prospettive di stampo assolutamente positivo riguardo al futuro possono risultare erronee nel cercare di assumere un punto di vista decisivo, in grado di fare luce sulla relazione tra il corpo trasformato e i movimenti sociali che possano denunciarne la causa. NOT A TOY, invece, sfrutta la sua riflessione visiva, proprio per indagare tali fenomeni, come si legge in uno dei saggi contenuti in esso. José Teunissen afferma: «Avant-garde fashion, like art, is increasingly becoming a reflection of the repressed tensions and discrepancies that mark contemporary culture. As Richard Martin puts it, since 1960s fashion as actually become the ideal medium for expressing our relationship with ourselves and with the world around us30».
E ancora in un altro saggio, questa volta di Ted Polhemus31, troviamo una citazione allo studio di Mary Douglas, antropologa che si è occupata della rilevanza di significato del corpo nelle culture. Questa lettura è chiarificatrice della stretta connessione tra il corpo fisico e i movimenti sociali. Il corpo viene inquadrato, appunto, come vettore della concretizzazione delle esperienze sociali (in Natural Symbols la studiosa distingue il corpo fisico dal corpo sociale).
Ciò che risulta evidente nello sfogliare NOT A TOY non è solo la scelta di un corpo trasformato e grottesco32, ma la cospicua presenza in questa ricerca di casi in cui il vestito sfida la logica naturale della fisionomia umana: la smaterializza e la rende altra. Soltanto postulare una diversa strutturazione per il corpo umano è di per sé un gesto che inevitabilmente si dispone, lungo l’asse temporale, nel futuro. In tal senso abbiamo interpretato e nominato questa produzione di fashion design come futuribile, perché manifesta uno slancio verso una dimensione posteriore in cui il corpo non esiste più, non nei termini almeno a cui siamo abituati.
Sebbene questa tipologia di corpo re-immaginato non attui un rimando diretto alle iconografie futuristiche – intendiamo la space age e il futuro alieno che si strutturano intorno a stilemi tipici del genere — e paradossalmente sembra accogliere più un’aria primitiva33, sostanzia fino in fondo l’urgenza di spingere il corpo – o meglio la forma mentale che abbiamo di esso — verso una metamorfosi così totalizzante da smaterializzarlo, depistarlo completamente, in risposta all’accelerazione tecnologica (qui Marchesini si allinea con Rosa), causa «di una fase critica che porterà l’individuo in una condizione di postumanità, tratteggiata come un vero e proprio paradiso ontologico dove l’essere non è più collegabile a una entità filogenetica specifica34». E ancora, Marchesini dice: «Nell’idea postorganica vi sono il desiderio e la presunzione nonché ovviamente l’assurda pretesa di trascendere dal biologico, di uscire dal corso dell’evoluzione per poter divenire artefici del proprio futuro35».
Convocare il postumanismo in questa ricerca significa riconoscere questi movimenti della moda appartenenti a un sistema più esteso che coinvolge vari ambiti. Trattandosi poi di corpi, la moda si pone come strumento privilegiato per l’assunzione e la concretizzazione di tali dinamiche storico-sociali.
Accanto all’operazione di Craig Green per l’ss 2018, il lavoro di Nick Cave spicca nella selezione dei curatori di NOT A TOY: Soundsuit presenta una serie di capi che cancellano la figura umana attraverso l’utilizzo di materiali di vario tipo (dal legno, alla plastica, ai tessuti) e che hanno la peculiarità di produrre un suono al movimento dell’indossatore. Essi non si configurano in specifiche fisionomie, ma sono per lo più ammassi informi, di cui a malapena si distinguono le gambe. Per la ss 2007 L.S.I., Cassette Playa in collaborazione con Gary Card fa sfilare dei modelli con addosso delle strutture poliedriche colorate che ne celano il volto, il busto e le braccia. Anche in questo caso l’unico elemento della figura umana riconoscibile sono le gambe. L’artista Hans Hemmert nel 1998 crea un abito-struttura con un enorme palloncino giallo che ingloba il corpo. Nelle fotografie o.T. (Yellow sculpture fitting to…), l’enorme massa gialla compie azioni naturali, come guidare una vespa o tenere in braccio un bambino, e si comprende la presenza di una figura umana all’interno solo nel momento in cui le mani nell’atto di afferrare aderiscono all’involucro di plastica gialla. Allo stesso modo anche il gruppo di artisti Urban Camouflage fa indossare degli abiti che permettano il confondersi con ambienti circostanti, che sono per lo più grandi centri commerciali: la figura umana è completamente nascosta da un ammasso informe di bottiglie di plastica, di borse Ikea o di guanti per il giardinaggio.
Se NOT A TOY si rapporta a una serie di personalità che lavorano a cavallo fra la moda, l’arte e la performance, possiamo individuare la stessa fenomenologia di questi non-corpi36 anche in sfilate di designer non meno d’avanguardia, ma sicuramente con una portata più ampia e con una posizione più canonica all’interno del sistema. Nella collezione haute couture della spring 2016, Viktor & Rolf fanno sfilare una progressiva sfilata di capi in piqué bianco, che pian piano mutano da una foggia basica e semplice di un vestito a maniche a complesse sculture bianche, cubistiche e deformanti che celano gran parte del corpo della modella. E la stessa volontà di cancellazione della forma umana la ritroviamo nella fall 2018 ready-to-wear di Comme des Garçons, in cui le modelle sono imbavagliate in ammassi amorfi di tessuti di vario tipo, colorati e dal sapore camp.
Gli abiti immaginati e progettati dai designer presi in considerazione ricoprono corpi a cui non aderiscono perfettamente, in una sorta di incastro sbagliato. Il futuro prospettato da questi è dunque un futuro che si attua attraverso una negazione totale del corpo. Si potrebbero definire appunto dei non-corpi: abiti e vestiti che vogliono superare la dimensione umana, trascendere la sua fisicità, in piena adesione alle idee di manipolazione genetica e funzionale, che trova teorizzazione nel postumanismo.
L’ultimo esempio che citiamo, in conclusione, è quello di un designer emergente, Lærke Valum, che ha contribuito alla MINDCRAFT 17 exhibition durante la design week di Milano e il cui lavoro è stato un allestimento di capi nel chiostro di San Simpliciano. Questi erano delle armature in tessuto e alluminio che non consideravano la struttura umana. Non erano indossate da manichini, ma issate come delle sculture autonome. Il testo di presentazione del progetto intitolato Moments of aiuta ancor di più a individuare il nodo in cui si intrecciano accelerazione della società post-moderna, moda e tempo inteso come futuro.
For many of us, everyday day time is sliced into appointments and other obligations. Time is inherently boundless, and by breaking it up into hours, days, months years, centuries and millennia, we seek to contain and control it. By attempting to capture and control time, however, we only make ourselves captives to time, wearing our sense of urgency like a second skin, draped in a constant fear of not being on time, running out of time, wasting time. ‘Moments of’ explores this notion of time as a burden or ‘wearable time’, represented by an abstraction on a body that wears time like a mantle. The body is both fragile and strong, heavy and light, and although it is weighed down by time, it is still able to shoulder the burden rather than trying to escape it.37
Conclusione & Ongoing Future
All’interno dei suoi Scritti, l’architetto Alessandro Mendini a un certo punto afferma: «Fare così affidamento sul futuro significa rinviare un possibile problema che, qualora alla fine venisse risolto, non incontrerebbe più il medesimo ambiente da cui ha avuto inizialmente origine38». L’affermazione di per sé è utile a comprendere quel meccanismo di cortocircuito temporale che avviene quando si immagina il futuro. L’immaginazione si attua sempre in una dimensione ucronica, incapace dunque di rispondere alle effettive necessità del tempo futuro preso in considerazione. D’altra parte, come più volte ripetuto, decidere di immaginare un futuro nel momento presente non significa condurre un’operazione priva di senso, quanto prendere distanza dal presente per affrontare una riflessione, in qualche modo, critica su di esso.
Le finestre sul futuro aperte dai fashion designer presi in considerazione hanno per lo più risposto alle influenze e alle criticità del proprio presente storico. La space age ha risposto al clima propositivo del decennio 60-70. Rei Kawakubo si è fatta carico di palesare nel corpo e nella costruzione degli abiti una disfunzione latente e accennata, che con il protrarsi del tempo si è fatta via via più intensa. Come ribadiscono filosofi e sociologi, la rivoluzione tecnologica partita in un tempo moderno e giunta fino ad oggi, l’era del post-modernismo, è stata in grado di sovvertire completamente la modalità della vita nell’uomo, lasciando molto spesso spazi di vuoto e di malessere. La moda, come altri ambiti (e in un certo senso, più di altri ambiti), è riuscita a introiettare i processi di cambiamento e di renderli visibili nel presentare costantemente l’immagine di ritorno di quello che siamo e di quello che vogliamo essere.
I tentativi ucronici di questi designer sono delle manifestazioni diverse rispetto a quella macchina senza freni che abbiamo soprannominato Ongoing Future. Questo non è definibile nelle sue manifestazioni, perché è in grado di cambiare costantemente. I suoi agenti sono plurimi: non solo i designer, ma anche gli stessi consumatori, tutto il sistema della moda preso nella sua totalità ne è tanto vittima quanto fautore.
Affermare che operazioni come quella di Alessandro Michele per Gucci o Demna Gvasalia per Balenciaga e Vetementes39, rappresentano al momento il futuro della moda significa affermare una mezza verità: essi attualmente ricoprono il ruolo di punti cardine di quello che qui chiamo ongoing future, in quanto capaci di intercettare i movimenti e i gusti del tempo presente (zeitgeist) e offrirli immediatamente al mercato. L’ongoing future è estremamente mutevole, si fa e disfa costantemente, e suggerisce l’impossibilità di stabilire chi effettivamente ci sarà nel futuro.
I designer che hanno immaginato il futuro, di contro, permettono, in un moto convulsivo che ricade su se stesso, di leggere e interpretare il tempo attuale, attraverso le loro collezioni e il modo in cui ristrutturano il corpo.
Bibliografia
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http://www.laerkevalum.com/2018/03/14/mindcraft-17/ (ultimo accesso aprile 2018).
Mi riferisco in generale alle varie definizioni della moda in cui viene accostata al nuovo, al futuribile, all’originalità. In particolare citiamo: Lars Fr. H. Svendesen, Filosofia della moda (Parma: Guanda 2006), 20–36.↩︎
Per una completa ed esaustiva etimologia e rassegna sulla parola ucronia, soprattutto in relazione alla moda, rimando a Evans, Caroline, Alessandra Vaccari (a cura di), Il tempo della moda (Milano: Mimesis 2019), 139 e seguenti.↩︎
A sua volta la parola utopia è stata coniata da Thomas More nel 1516 per il trattato politico in cui confrontava la società dell’Inghilterra a lui contemporanea con quella di un’isola inesistente con un sistema sociale del tutto ideale. Ciò che appare più interessante sono le annotazioni che ne fa Svendsen a riguardo: la moda è anti-utopica, perché sovverte alla base qualsiasi sistema futuribile e impostato a causa del suo costante rinnovarsi. Svendsen, 35.↩︎
«En fait, la Mode postule une uchronie, un temps qui n’existe pas; le passé y est honteux et le présent sans cesse ‘mangé’ par la Mode qui s’annonce.» Roland Barthes, Système de la mode (Paris: Editions du Seuil, 1983).↩︎
«Tra i teorici che si sono occupati di tempo della moda, Patrizia Calefato è tra i pochi ad aver commentato il riferimento di Barthes all’ucronia, che lei definisce come un tempo che, anche se non esiste “può essere ‘detto’, vuoi attraverso il linguaggio verbale, vuoi tramite segni non verbali”». Evans, Caroline, Alessandra Vaccari, 141.↩︎
Patrizia Calefato, The Clothed Body (Oxford: Berg Publishers, 2004).↩︎
Daniel James Cole e Nancy Deihl, Storia della moda dal 1850 a oggi (Torino: Einaudi, 2015).↩︎
«In January, 1968, two Japanese companies, Panasonic Corporation and The Mainichi Newspapers, agreed to undertake a joint time capsule project in celebration of the Japan World Exposition 1970: EXPO '70. After three years of planning, research and construction, two time capsules identical in every detail were buried adjacent to Osaka Castle. The lower capsule will remain buried for 5,000 years; the upper capsule will be opened for the first time in the year 2,000 and every 100 years thereafter. The purpose of the project is to send forward in time a visual, aural and documentary record of life in the year 1970 AD. The scale of the project and the size of the capsules is unprecedented: each capsule contains 2,098 objects and recorded items representing the achievements of our civilization and the everyday experience of the Japanese people. The heritage left by our ancient and more recent ancestors is recorded through art, Iiterature and music. Even the ideals and aspirations of people today are expressed in written and recorded messages.» http://panasonic.net/history/timecapsule/index.html↩︎
Jack Sannuks, Everything you need to know about Comme des Garçons, Dazed and Confused, 2 maggio 2017 (corsivi miei).↩︎
Gli articoli e i giornalisti che inquadrano la fashion designer in questi termini: ‘post traumatic’, ‘Hiroshima chic’, ‘post apocalyptic’ non sono pochi. Troviamo altri esempi in Enrico Mazzeu, Le due rare interviste di Rei Kawakubo, Il Post sezione moda (28 ottobre 2015) e Alexander Fury, 7 themes in Rei Kawakubo’s Career, The New York Times Style Magazine (28 aprile 2017).↩︎
Faccio riferimento alla modalità con cui sono state intitolate le varie stanze della mostra Comme des Garçons: Art of the In-Between fatta dal The Costume Institute del MET, nel 2017 e curata da Andrew Bolton. Le stanze presentavano tale nomenclatura: Absence/Presence, Design/Not Design, Fashion/Anti-Fashion, Model/Multiple, Then/Now, High/Low, Self/Other, Object/Subject, and Clothes/Not Clothes.↩︎
Dico questo perché Rei Kawakubo è nata nel 1942, allo scoppio delle bombe nel 1945 era troppo piccola per esperire direttamente l’evento traumatico. Per il rapporto tra trauma, memoria collettiva e generazioni mi sono affidato a: Mengoni Angela. Abitare la storia naturale della distruzione: memoria, elaborazione, montaggio nell’Atlas di Gerhard Richter in: Pina De Luca, Abitare possibile. Estetica, architettura, new media, (Milano: Mondadori, 2015) 135–136.↩︎
Svendesen, 82.↩︎
Arianna Piazza (a cura di), FASHION 150 years/designers (Londra: Laurence King Publishing, 2016).↩︎
Rosa Hartmut, Accellerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità (Torino: Einaudi, 2015).↩︎
Rosa, 7.↩︎
Rosa, 97 (corsivo mio).↩︎
Roberto Marchesini, Post-human, Verso nuovi modelli di esistenza (Torino: Bollati Boringhieri, 2002), 227.↩︎
Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Milano: Feltrinelli, 2018) come nodo di congiunzione tra corpo, scienza e immaginario extraterreste, in particolare il capitolo 3: Biopolitica dei corpi postmoderni: la costituzione del sé nel discorso sul sistema immunitario.↩︎
Lexilectous, Theo-Mass, Greg French, Robert Klanten, Sven Ehmann (a cura di), Otherworldy (Berlino: Gestalten, 2016).↩︎
Lexilectous, 8.↩︎
Lexilectous, 8.↩︎
Marchesini, 244.↩︎
Lexilectous, 144.↩︎
Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo (Milano: Elèuthera, 2010), 48.↩︎
Steeve Dool, “Craig Green: the designer revolutionizing the way men look” in CNN style (5 aprile 2018).↩︎
ATOPOS Contemporary Visual Culture, Vassilis Zidianakis (a cura di), NOT A TOY. Fashioning Radical Characters (Berlino: Pictoplasma, 2011).↩︎
Salvo poi essere criticata perché: «It’s not clear what the exhibition wants to say about bodies, which according to the title is a key component of the exhibition.» In Ane Lynge-Jorlén e Philip Warkander, “Utopian Bodies. Fashion Looks Forward” in Fashion Theory, vol. 22 (2018), 119–124.↩︎
Lynge-Jorlén Ane e Philip Warkander, 123.↩︎
ATOPOS Contemporary Visual Culture, 19.↩︎
ATOPOS Contemporary Visual Culture, 39.↩︎
ATOPOS Contemporary Visual Culture, 21.↩︎
A tal proposito è interessante notare una certa somiglianza tra il lavoro di Charles Fréger in Wilder Men: The Image of The Savage, che tenta di ricostruire una mappatura dei costumi folkloristici di tradizioni antiche legate alla cultura occidentale, e NOT A TOY. La produzione dei designer scelti nel libro molto spesso richiama un’estetica primitiva, in cui nel corpo si manifesta una chiara volontà di pratiche trasformative dal sapore atavico e apotropaico.↩︎
Marchesini, 529.↩︎
Marchesini, 528 (corsivo mio).↩︎
Definizione provvisoria che costruiamo sul calco dei non-luoghi o del non-tempo di Marc Augé, tenendo presente delle diverse direzioni e ambiti che prendono i due termini.↩︎
Qui di seguito l’intero anedotto riportato da Alessandro Mendini: «Louis Kahn racconta questo aneddoto: “Mi ricorda una storia.[…] mi fu chiesto dalla General Electric Company di aiutarli a progettare un veicolo spaziale, e ottenni l’autorizzazione dell’FBI per farlo. Avevo tutto il lavoro che potevo fare nelle mie mani, ma ero comunque in grado di parlare di veicoli spaziali. Incontrai un gruppo di scienziati seduti a un rande tavolo. […] Uno di loro mise un’illustrazione sul tavolo e disse: ‘Signor Kahn, vogliamo mostrarle quale sarà l’aspetto di un veicolo spaziale fra cinquant’anni’. Era un ottimo disegno, un disegno bellissimo, di persone che galleggiavano nello spazio, e di strumenti ben fatti, dall’aspetto complicato che galleggiavano nello spazio. Ci si sente umiliati in una situazione così. Si sente che l’altro conosce qualcosa di cui tu non sai niente, con questo brillante tizio che mostra un disegno e dice: ‘Questo è l’aspetto che avrà un veicolo spaziale fra cinquant’anni.’ Dissi immediatamente: ‘Non avrà questo aspetto’. Avvicinarono le sedie al tavolo e dissero: ‘Come lo sa?’ Dissi che era semplice […] Se si conosce come una cosa apparirà fra cinquant’anni, la si può fare ora. Ma non lo si sa, perché il modo in cui una cosa sarà tra cinquant’anni è quello che sarà.” Alessandro Mendini, Scritti (Milano: Skira editore, 2004) 44.↩︎
«Alessandro Michele of Gucci and Demna Gvasalia of Balenciaga and Vetements are making clothes that capture the zeitgeist» in Alexander Fury, “These two guys are changing how we think about fashion”, New York Times Style Magazine (11 aprile 2016).↩︎