ZoneModa Journal. Vol.10 n.1 (2020)
ISSN 2611-0563

Atlante disciplinare della decostruzione. Dalla filosofia alla moda

Pietro TerziFondazione Collegio San Carlo (Italy); Université Paris Nanterre (France)

Dottore di ricerca in filosofia presso l’Université Paris Nanterre e la Scuola Internazionale di Alti Studi della Fondazione San Carlo di Modena, con una tesi sulla ricezione del pensiero kantiano in Francia (1854-1986). I suoi altri ambiti di interesse riguardano la filosofia di Jacques Derrida, la fenomenologia francese, la storia intellettuale della Terza Repubblica e la storiografia della filosofia. Ha scritto diversi articoli sul pensiero francese dell’Ottocento e del Novecento e sta attualmente scrivendo per Bloomsbury un libro su Léon Brunschvicg.

Pubblicato: 2020-07-29

Abstract

Giocando sul duplice senso dell’espressione “dalla filosofia alla moda”, questo articolo si prefigge due obiettivi: da un lato, definire brevemente il concetto di decostruzione all’interno della filosofia di Jacques Derrida (1930-2004), indagandone il senso proprio e cercando di comprendere anche le ragioni che hanno portato al suo successo, oltre le aspettative dello stesso Derrida; secondariamente, illustrare appunto le varie traiettorie lungo le quali la decostruzione si è progressivamente trasformata in una “moda”, ossia in un metodo applicabile in diversi settori disciplinari. A questo punto, si cercherà quindi di fornire una sorta di “atlante disciplinare” della decostruzione, senza preoccuparsi di ortodossie filologiche, ma cercando di comprendere gli effetti prodotti dalla nozione di decostruzione. Gli ambiti presi in esame, particolarmente esemplari, saranno soprattutto la critica letteraria, l’architettura, la teoria dei media, la cultura pop e, infine, per dare un’ulteriore senso all’espressione “dalla filosofia alla moda”, la moda stessa, con un’attenzione specifica per Margiela e la scuola di Antwerp.

Keywords: Derrida; Decostruzione; Moda; Decostruzionismo; Filosofia.

Decostruzione senza Derrida

Il sottotitolo di questo articolo si presta a una doppia lettura: per un verso, la decostruzione è una nozione che, sganciandosi dal suo originario contesto filosofico, ha circolato ampiamente attraverso le frontiere disciplinari, arrivando a interessare anche il mondo della moda; per l’altro, la decostruzione è diventata essa stessa una moda. Tra queste due possibili letture non si dà una netta opposizione; anzi, sono l’una il risultato dell’altra, se è vero che la complessa storia degli effetti del concetto di decostruzione è legata, su un piano di sociologia della cultura, alla popolarità internazionale che il pensiero di Derrida ha conosciuto a partire dagli anni Ottanta. Negli ultimi tre decenni, lo spettro semantico del termine decostruzione si è allargato fino a includere – o si è semplificato fino a indicare — ogni sorta di approccio critico e ogni tentativo di mettere in questione il presunto ordine concettuale dominante all’interno di un dato ambito, esattamente il contrario di quanto Derrida intendeva facendo ricorso a un termine di così difficile interpretazione.

La prima distinzione che si impone è quindi quella che separa l’applicazione dell’atteggiamento decostruttivo di Derrida ad ambiti nuovi e differenti dallo sfruttamento libero e non rigoroso di un lemma particolarmente efficace e fashionable. Non vogliamo però, in questa sede, esprimere un giudizio circa le storpiature, le manipolazioni, i trapianti artificiosi che questo lemma ha subito, quanto piuttosto rendere conto delle sue vicissitudini — dalla filosofia alla moda, appunto.

Una rapida rassegna bibliografica può aiutare a rendersi conto della proliferazione incontrollata delle decostruzioni — o dei decostruzionismi (Derrida ha sempre distinto le due cose) — nella teoria contemporanea. Quasi in un gioco di libere associazioni, la decostruzione di Derrida è stata accostata o applicata alle teorie più improbabili e agli ambiti più disparati, come la complementarietà di Nils Bohr,1 il sufismo di Ibn ‘Arabi,2 la psicologia3 o la business ethics.4 Questo è il caso della decostruzione interpretata in modo scolastico e irriflesso, come insieme di assiomi o repertorio di gesti critici, strategie di lettura e posture interpretative. Si tratta, a ben guardare, della ripetizione molto spesso parodistica e maldestra dello stile decostruttivo di Derrida favorita da vere e proprie nicchie epistemiche (e accademiche) in cui si parla un idioma iniziatico e si fissano in ipse dixit cristallizzati le asserzioni dell’autore, senza porsi alcun problema di storicizzazione e contestualizzazione. Quanto poi all’uso del termine “decostruzione”, il catalogo tematico potrebbe essere infinito e quasi barocco: dalle decostruzioni in chiave gender dell’information technology5 al traffico illegale di specie protette,6 dal design dei veicoli a motore7 al sistema cinese delle emissioni di gas inquinanti.8

Si capisce dunque come mai Derrida si sia sempre dichiarato sorpreso dal successo del termine “decostruzione”, che egli — come è noto — aveva in origine coniato per tradurre i termini husserliano-heideggeriani di Abbau e Destruktion.9 Nel paragrafo 6 di Essere e tempo, Heidegger proponeva la sua “distruzione” dell’ontologia come un tentativo di rifluidificare una “tradizione sclerotizzata” riattingendo alla fonte, ai “certificati di nascita” dei concetti.10 Malgrado gli esiti radicalmente differenti, era la stessa ispirazione che aveva guidato la ricerca del suo maestro Husserl lungo tutto il suo percorso, fino a quell’appendice della Crisi delle scienze europee sull’origine della geometria, da Derrida tradotta e mirabilmente commentata nel 1962, in cui veniva messo a tema il problema della “riattivazione dell’origine”, dell’interrogazione “a ritroso” come strategia per attingere alla fonte esperienziale degli enunciati scientifici, per riscoprire il senso profondo di asserzioni apodittiche e metodologie rigidamente formalizzate (si pensi alla “polemica”, nel paragrafo 9 della Crisi, contro la scienza galileiana).

Analogamente, per Derrida la decostruzione non aveva un compito negativo, nichilistico: si trattava, al contrario, di desedimentare le strutture di senso che la “tradizione metafisica” — vale a dire, la concettualità propria della tradizione filosofica — aveva reso statiche. In questo senso, “[p]iù che distruggere, si trattava anzitutto di capire come si fosse costruito un certo ‘insieme’, e per questo ricostruirlo”.11 Da questo punto di vista, la decostruzione aveva il compito di seguire e assecondare il movimento di differenziazione che stava alla base delle varie configurazioni storiche. Per questo movimento, come è noto, Derrida coniò un termine, altrettanto oscuro: différance.12

Mettendo fra parentesi le sovrastrutture linguistiche e semiologiche del pensiero di Derrida, in gran parte riconducibili al contesto culturale della Francia degli anni Cinquanta e Sessanta, la nozione13 di différance — che nel sostantivo “différence” introduce una “a” mutuata dal participio presente “différant”, “differente” nel senso di “che differisce” — rinvia precisamente a un movimento di differenziazione originaria che, articolando in sé spaziamento e temporalizzazione, produce come esito le differenze concettuali con cui noi pensiamo il mondo. Dietro alle coppie oppositive sensibile/intelligibile, presenza/assenza, interno/esterno, trascendentale/empirico, bisogna scorgere questo processo differenziale che non si esprime — si badi — su un piano più originario e insondabile, ma che è al contrario interno ai rapporti tra le differenze, al pari di un sistema di forze che, così come produce le forme, le presenze, ha in sé il principio del loro superamento.14 La différance racconta dunque la genesi del senso e dei significati — una genesi però complicata, mai pura, che si confonde con i suoi stessi prodotti, che non può mai essere identificata in un qui e ora, ma solo ricercata a posteriori. In questo senso, ogni presenza è sempre una traccia, una struttura non chiusa in se stessa, autosufficiente, ma legata a un contesto e a un’origine a cui fa segno. Riattivare l’origine è dunque un’impresa al contempo necessaria e impossibile: necessaria perché un’origine c’è stata, perché qualsiasi cosa appaia nel mondo deve aver avuto una nascita, e in questo senso è temporale e storica; impossibile perché non possiamo mai attingerla direttamente, nella sua purezza. Come scrive lo stesso Derrida, l’origine “non è nulla prima che la si cerchi, è soltanto un effetto prodotto dalla struttura di un movimento”.15

Il richiamo di Derrida all’immagine del “testo generale”, introdotta fin dal primo capitolo della Grammatologia,16 non deve essere equivocato: lungi dall’indicare una trasposizione in termini puramente linguistici o letterari del mondo, la testualità generale allude al fatto che tutto il reale — dalle strutture elementari della vita fino alle forme più complesse della cultura — è strutturato come un sistema di elementi posti tra loro in rapporto differenziale, di rinvio reciproco, secondo forme che dipendono da precise configurazioni storiche, filosofiche, politiche, economiche, sociali, ecc. A queste configurazioni Derrida ha spesso fatto allusione nei suoi testi. Tuttavia, è vero — come molti, fra cui Foucault e Bourdieu, hanno notato — che l’opera di Derrida è sempre rimasta, pur all’apice del suo avanguardismo, un’operazione condotta ai margini del testo filosofico e delle forme argomentative classiche del mondo accademico. Molte “testualità regionali”, per giocare con allusioni husserliane, sono rimaste soltanto indicate da Derrida e mai esplorate da lui personalmente.

Nella sua prospettiva, però, l’idea di una testualità generale non doveva avallare tentativi più o meno artificiosi di codificare la decostruzione facendone un metodo applicabile indifferentemente. Al contrario, la decostruzione ha a che fare con la singolarità dello stile individuale e dell’ambito particolare che viene tematizzato.17 Il punto che occorre mettere in risalto, però, è che, stante la generalità del testo, non esistono limiti agli ambiti in cui processi decostruttivi possono essere rinvenuti e sollecitati. Come scrive Vitale, “se per la decostruzione tutto è testo, allora appartengono alla cultura anche quelle forme che la cultura dominante ed elitaria ritiene bassa cultura: il cinema, la televisione, i fumetti, la musica pop, ecc.”18

La globalizzazione del pensiero di Derrida ha contribuito fortemente alla moltiplicazione dei decostruzionismi. Se Derrida, primo vero filosofo a beneficiare della circolazione globale dei beni culturali, era attento a sorvegliare gli usi e i fraintendimenti delle sue teorie, egli era anche ben consapevole che — come lo scritto per Platone — la deriva di lemmi immessi nello spazio pubblico era in un qualche modo inevitabile. In uno spazio di competizione con altre teorie francesi — l’immanentismo di Deleuze, la sociologia di Bourdieu, il paganesimo di Lyotard, la genealogia di Foucault — e tedesche — soprattutto l’ermeneutica di Gadamer e la teoria critica francofortese, anche nella sua declinazione kantiana à la Habermas —, Derrida aveva buon gioco inoltre a mantenere una posizione moderatamente ambigua. Come è stato sottolineato, infatti, la grande fortuna di Derrida nel Nuovo Continente e, più in generale, in tutto il globo non è spiegabile solo in base a una fortunata congiuntura, essendo invece dovuta a una precisa strategia: Derrida, infatti, rivolse il suo lavoro, di per sé molto francese quanto a stile e orizzonte problematico, a un pubblico molteplice che tracimava i confini di quello, sempre più ristretto, della filosofia, facendo leva sulla sua combinazione di tradizione e avanguardia, autori canonici e riferimenti eterodossi. Questa opera di vera e propria disseminazione del bene culturale “decostruzione” fu naturalmente favorita dal gioco combinato di più attori: da un lato, i media culturali, nell’epoca della loro connessione globale; dall’altro, istituzioni accademiche prestigiose, come le università americane in cui Derrida insegnava e teneva conferenze (Yale, Irvine, Cornell, Johns Hopkins, ecc.) e sponsor dotati di un ampio capitale simbolico e sociale.19

Se questo processo ha senza dubbio contribuito alla diffusione del filosofema “decostruzione” e del pensiero di Derrida — contribuendo anche, va detto, a generare e perpetrare gravi fraintendimenti, oltre a imbarazzanti forme cultuali —, esso ne ha anche prodotto un’inevitabile deformazione. Furbescamente, ma in fondo coerentemente con la propria impostazione teorica, che stabilisce tra gli enunciati e i contesti di riferimento un rapporto sempre instabile e dinamico, parassitario, Derrida non ha mai cercato di porre un argine agli usi che, in ambiti disparati, venivano fatti dei suoi lemmi e dei suoi testi. Tuttavia, questo ha prodotto, come è stata definita, una “decostruzione senza Derrida”20 i cui esiti sono molto spesso incerti, se non comici nella loro gergalità.

D’altronde, ci sono ambiti che per la decostruzione hanno rappresentato terreni più naturali e fertili, o per ragioni intrinseche o perché lo stesso Derrida li ha in un qualche modo indicati. È il caso, ad esempio, della critica letteraria, della teologia, della psicanalisi, della linguistica, dell’epistemologia, degli studi post-coloniali o di genere, degli animal studies e delle arti visive in generale, laddove insomma i concetti di forma e di rappresentazione svolgono giocoforza un ruolo essenziale: “la decostruzione si interessa alle cose che non funzionano e che sono sigillate nell’ordine. Non sono soltanto questioni di politica, di diritto, ecc., sono questioni d’inconscio, di disordini che sono sigillati. […] Dunque, la decostruzione si interessa a chi, storicamente, ha istituito un ordine, nel quale un disordine in qualche modo si è sigillato e fissato.”21

Va poi considerato che la decontestualizzazione violenta, sulla spinta di processi che al contempo internazionalizzano e iper-segmentano il campo filosofico, rappresenta un destino comune a molte scuole o tendenze del pensiero continentale (si pensi solo alla fenomenologia di Husserl, frantumata in una galassia corpuscolare di settori e sotto-settori, ormai smarrito qualsivoglia orizzonte fondazionale). La differenza, però, è che la deriva del senso, la “disseminazione” potenzialmente infinita degli elementi che definiscono un’unità significante, rappresenta una possibilità strutturale che sta al fondamento stesso dell’idea di decostruzione. Prima ancora che essere una pratica o una metodica, la decostruzione è infatti un processo interno a qualsiasi configurazione di senso – a qualsiasi testo, inteso da Derrida nel modo più generale possibile come plesso di elementi posti in rapporto differenziale, poco importi che si tratti di un testo scritto, di un’opera architettonica, di una situazione storica o di un’istituzione. La decostruzione, scrive Derrida, è una “trasformazione in corso che si tratta di intensificare”.22 O, come affermò in una conferenza del 1986 in cui ebbe a precisare la distanza che lo separava da un supposto postmodernismo: “[L]a decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto, una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo, oggi in quel che si chiama società, politica, diplomazia, economia, realtà storica, e così via. La decostruzione è l’evento”.23 La decostruzione, cioè, interviene nel momento in cui gli enunciati discorsivi, i concetti, ecc., non possono più essere riferiti in modo chiaro a un voler-dire, a un supposto significato intenzionale, alla volontà di un autore, dunque risolti sul piano della semantica. Al contrario, essi devono essere inseriti all’interno di reti più ampie, di una testualità generale che li determina in varia misura, mostrando come il loro significato esplicito sia primariamente un effetto: “Da qui la necessità, per la decostruzione, di trattare i testi in modo diverso dal modo in cui si trattano dei contenuti discorsivi, dei temi o delle tesi, e di considerarli invece sempre come strutture istituzionali e, come si è soliti dire, come entità politiche, giuridiche, sociostoriche”.24

L’ambito letterario o linguistico, quindi, che ha rappresentato la prima colonia della decostruzione, è solo un terreno possibile di contaminazione, il più immediato, in quanto già frequentato dallo stesso Derrida. Partendo da qui, nelle pagine che seguono si vorrebbe tracciare, senza alcuna pretesa di esaustività, una sorta di atlante dei principali ambiti in cui la decostruzione ha esercitato i suoi effetti.

Decostruzione e critica letteraria

Il successo di Derrida in America e nei dipartimenti di modern languages e letteratura comparata ha una data d’origine precisa: 21 ottobre 1966. Quel giorno, Derrida tenne infatti la sua celebre relazione dal titolo “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane”25 durante il convegno internazionale su “I linguaggi critici e le scienze dell’uomo” all’Università Johns Hopkins.26 Questa conferenza, poi ripresa l’anno successivo in La scrittura e la differenza, rappresenta forse una delle migliori introduzioni, al contempo storiche e teoriche, al pensiero di Derrida, nella misura in cui la posta in gioco è una critica durissima ai presupposti ancora metafisici che orientavano lo strutturalismo degli anni Cinquanta e Sessanta. L’idea di Derrida, in cui si riconoscono precisi elementi nietzschiani, era piuttosto semplice: ogni approccio strutturalista — nell’antropologia di Lévy-Strauss, ad esempio — conteneva ancor la nostalgia “negativa” di un “centro”, dunque di un fondamento, di un’arché, di un telos, che limitasse in un qualche modo l’elemento di “gioco”, cioè di dinamicità non organizzata, che produce e al contempo destabilizza ogni struttura. Tutto il discorso delle scienze umane dell’epoca era quindi, secondo Derrida, diviso tra queste due tendenze: chi viveva “come un esilio” la perdita di un fondamento, la deriva dei significanti, e chi invece, nietzscheanamente, cercava di affermare il gioco, di assecondare il movimento della différance, ossia la decostruzione in corso.

Ma più che le scienze umane, vincolate a esigenze scientifiche di positività, fu la teoria letteraria a recepire questo messaggio, in un frangente di profondi mutamenti all’interno dei dipartimenti di letteratura americani. All’epoca della conferenza, la cosiddetta French theory era importata come un unico “pacchetto” in cui i nomi di Barthes, Deleuze, Lacan, Kristeva e Derrida si confondevano attorno ad alcuni assunti teorici fondamentali e piuttosto vaghi.27 A condizionare le scienze umane fu soprattutto l’opera di Foucault, mentre Lacan e Deleuze, più ritrosi al viaggio, ebbero un’influenza più limitata. Malgrado il carattere esoterico dei suoi scritti, grazie ai suoi numerosi viaggi e a un’ampia rete di relazioni, Derrida riuscì a imporre la propria presenza nella scena letteraria accademica ed extra-universitaria, sfruttando come porta di ingresso l’Università Yale, dove insegnava l’amico Paul de Man. I cosiddetti “Yale critics” — per altro molto diversi per orientamento e temperamento — monopolizzarono il dibattito nell’ambito della critica letteraria tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.28 Nella prefazione a un testo del 1979, firmato a cinque mani da Derrida, de Man, Bloom, Hartman e Hillis Miller, si legge che “il linguaggio letterario mostra come il linguaggio in generale non sia riducibile al significato: inaugura e al contempo preclude la disparità tra simbolo e idea, tra segno scritto e significato assegnato”.29 Contro ogni storicismo o psicologismo, la critica letteraria decostruzionista tentava quindi di seguire le derive del senso, mostrando come ogni testo (nel senso tradizionale) facesse parte di una testualità più generale, includendo o rinviando ad altri testi e facendo saltare differenze tradizionali: tra significante e significato, ovviamente, ma anche tra concetto e metafora o tra il testo propriamente detto e il commento critico. Nell’ottica di Paul de Man, si trattava di una reazione contro il tentativo di applicare alla letteratura, che di per sé non significa nulla, griglie esterne di varia natura — psicologiche, sociali, filologiche, politiche — per costringere il testo a dire qualcosa. L’insistenza sulla confusione tra retorica (linguaggio figurato, tropi, ecc.) e significato aveva proprio lo scopo di mostrare la “resistenza” del testo a ogni sua ricostruzione, a ogni tentativo di riduzione a un significato e dunque a ogni tentativo di appropriazione. Come in Derrida, dunque, la decostruzione non operava criticando, ma mostrando come il presunto significato di un testo, il suo voler dire, venga continuamente inficiato da elementi retorici che lo strutturano, certo, ma che al contempo lo destabilizzano o lo contraddicono.30

Decostruzione e architettura

Se il rapporto con la letteratura era in fondo naturale, l’incontro di Derrida con l’architettura presenta invece tutti i tratti dell’accidentale. Benché la decostruzione rinvii semanticamente alla nozione di struttura, molto presente nella cultura francese in cui Derrida si è formato, ma anche nella tradizione fenomenologica in generale, si può parlare del rapporto tra decostruzione e architettura solo a partire dagli anni Ottanta, decennio in cui Derrida entra in dialogo con architetti come Bernard Tschumi, Peter Eisenmann e Daniel Libeskind, solo per citare i più importanti.31

Tutto comincia nel 1985, quando Bernard Tschumi, che aveva ottenuto la commissione per il Parc de La Villette a Parigi, esorta Derrida a collaborare con il collega Peter Eisenman per un progetto comune. La collaborazione non darà alcun esito concreto a causa di motivi logistici e finanziari, ma lascerà numerose tracce: articoli, un libro importante come Chora L Works (1991)32 e numerosi dialoghi. I testi che risalgono a questo periodo della riflessione di Derrida — raccolti in edizione italiana da Francesco Vitale33 — presentano uno schema comune: dichiarandosi incompetente, Derrida evita di assumere posizioni di superiorità epistemologica, in cui la filosofia dice la verità dell’architettura, per entrare piuttosto in un confronto orizzontale, dialogico, e offrire strumenti con cui gli architetti possano indagare i presupposti metafisici ancora nascosti nella loro arte — la centralità della presenza e della “scala umana”, l’idea di finalità e di funzione, l’organizzazione dello spazio, etc. — e fare spazio a un’“architettura dell’evento”, che fa segno verso l’altro, come condizione preliminare di ogni forma, abitabilità o legge dell’oikos. Lo scopo, naturalmente, non più che in filosofia, non è “dimenticare il passato”; gli archivi storici sono sempre presenti e non possono essere cancellati, resi illeggibili con un gesto volontaristico: “Non si può […] dismettere quei valori dell’abitare, della funzionalità, della bellezza, eccetera. Bisogna costruire, per così dire, un nuovo spazio e una nuova forma, delineare un nuovo modo di costruire in cui quei motivi o quei valori siano reinscritti”.34 In questo abito, la decostruzione opera dunque soprattutto come tentativo di aprire la pratica dell’architettura alla dimensione, a lungo teorizzata da Derrida, dell’evento, all’interazione non predeterminata tra uomo, forma e struttura.

Decostruzione, media e tecnologia

Un altro filone decisamente accogliente nei confronti della decostruzione è quello della teoria dei media, spesso in dialogo con i cultural studies anglosassoni. Il sociologo inglese Raymond Williams fu tra i primi, già nel 1986, a entrare in dialogo con Derrida a proposito dell’impatto che i nuovi media, la televisione in primo luogo, avevano sulla legittimazione pubblica del discorso intellettuale e sulle modificazioni che imponevano alle forme della cultura popolare in generale.35 L’idea di una decostruzione applicata ai media studies in chiave culturale si può risolvere o nell’analisi critica di testi come magazine, programmi tv, campagne pubblicitarie, ecc., per metterne in luce i presupposti di genere, le strutture narrative, l’immaginario ideologico, i codici impliciti, oppure in una problematizzazione dello statuto stesso del mezzo di comunicazione. In un certo senso, infatti, l’immagine, la televisione, le telecomunicazioni, l’informatica ecc. non erano per Derrida che altre forme di iscrizione, di testualità in cui parola, immagine, incisione, audio, ecc., si trovavano in rapporto di reciproca supplementarietà e regolati da codici particolari. In riferimento a McLuhan, di cui non condivideva le analisi e le categorie troppo schematiche, Derrida affermava:

non credo si possa qui semplicemente opporre la scrittura alla parola, o l’immagine o, diciamo, la struttura audiovisiva. Per questo motivo ho tentato di proporre l’elaborazione di un sistema di scrittura o di testo che non fosse semplicemente opponibile alla parola o all’immagine. Credo che la parola e l’immagine siano dei testi, delle scritture. Allora la distinzione non era tra la scrittura e la parola, ma fra molteplici tipologie di testi, molteplici tipologie di inscrizioni, di riproduzioni, di tracce. Da questo punto di vista, ciò che avviene dopo la “fine del libro” non è l’avvento di un’altra parola, immediata, trasparente, ma l’introduzione di altre strutture testuali, di altre strutture di tele-scrittura, accompagnate dai problemi politici che ciò comporta.36

A partire da queste considerazioni e da questi assunti teorici si sono mossi due autori molto diversi fra loro per geografia e prospettive: Gregory L. Ulmer (1944) e Bernard Stiegler (1952). Il primo, professore all’Università della Florida, ha cercato di applicare gli strumenti della decostruzione, con particolare riferimento alla nozione di grammatologia, poi abbandonata da Derrida, ai media audiovisivi e al mondo digitale, a quella che egli chiama la “scrittura pitto-ideo-fonografica” degli “iper-media”. Lo scopo non è tanto quello di produrre una critica, quanto di decostruire in senso “euristico” al fine di produrre una nuova pedagogia informatica delle humanities.37 Le nozioni di Derrida vengono dunque adoperate per ripensare concetti centrali come quello di presenza, di trasmissione del senso, di interpretazione, di educazione in un’epoca di interfacce, di ipertesti, di archivi multimediali e di contenuti differiti che sembra davvero compiere quella “fine del libro” annunciata nel primo capitolo della Grammatologia.38 Stiegler, invece, che di Derrida è stato allievo diretto e di cui è forse uno dei più originali e autonomi prosecutori, ha sempre orientato il suo lavoro in chiave antropologica, con un’attenzione particolare per i cambiamenti introdotti dalle tecnologie digitali nell’ambito dell’educazione, delle comunicazioni audiovisive, dell’economia, dei servizi, dell’arte, della politica in generale.39 Quella di Stiegler è un’analisi “farmacologica” della tecnologia, che gli ha permesso di bypassare l’opposizione tra entusiasmo messianico e critica fatalista. Come è noto, e come Derrida ha sottolineato nella Farmacia di Platone,40 il concetto greco di pharmakon contiene un’indecidibilità essenziale, essendo sia veleno sia rimedio. L’odierna “miseria simbolica”,41 sostiene Stiegler, è l’esito diretto della combinazione letale tra sviluppo del capitalismo, proliferazione mediatica e crisi della democrazia (tecnocrazia e populismo come facce speculari della stessa situazione spirituale). Si tratta allora, rovesciando la formula weberiana, di “reincantare il mondo”, produrre nuovo “valore spirito” e una nuova critica dell’economia politica, analizzando i dispositivi “grammatologici”, cioè di inscrizione tecnologica, che sottendono alla formazione delle coscienze individuali.42

Decostruzione e cultura pop

Un ambito di applicazione specificamente “latino” della decostruzione è rappresentato dalla pop culture. L’idea di una “pop-filosofia” nasce in Francia, benché senza legami espliciti con la filosofia di Derrida. È infatti Gilles Deleuze a coniare il termine “pop’philosophie” in un testo del 1973, scritto in difesa dell’Anti-Edipo. Fra gli autori di un libro a suo modo pionieristico, come Matrix: machine philosophique, uscito nel 2003 e accolto con un certo scalpore dai filosofi più accademici, figurano filosofi di varia estrazione, come Élie During, Patrice Maniglier, Jean-Pierre Zarader e Alain Badiou. Deleuziani sono inoltre Jacques Serrano, fondatore nel 2009 del festival “Semaine de la Pop Philosophie” di Marsiglia43 e il filosofo belga Laurent de Sutter, autore di numerosi testi pop-filosofici.44

È tuttavia in Italia che l’idea di una pop-filosofia si è legata a precise istanze decostruzioniste. Nel nostro paese, è stato Simone Regazzoni, direttore della casa editrice Il Nuovo Melangolo di Genova, allievo di Derrida e tra i massimi studiosi del suo pensiero politico, a far interagire per primo decostruzione e cultura di massa, non nell’ottica di una critica della cultura, bensì di una lettura capace di far emergere le intensità di pensiero proprie ai principali prodotti pop, soprattutto del cinema, della serialità televisiva e dell’industria pornografica.45 Nell’ottica di Regazzoni, è infatti impossibile interpretare l’evoluzione dei moderni spazi democratici senza esaminare il modo in cui tale evoluzione si specchia e viene interpretata dalla cultura pop. Scrive Regazzoni:

La realtà in cui viviamo è sempre meno una realtà univoca dai confini ben determinati e sempre più una rete complessa e articolata costituita dall’intreccio di diversi mondi, tra cui, importantissimi, e a loro modo reali, quelli che si attualizzano in opere di fiction (dalla letteratura al cinema, dai fumetti alle serie tv) che sempre più tendono ad assumere la forma di narrazioni-mondo. […] Per questo non si dà la possibilità di conoscere la realtà, né di pensare il proprio tempo, se si crede ancora che il mondo reale sia qualcosa di altro, e di indipendente, rispetto alla rete dei mondi che si attualizzano in opere di fiction.46

Queste tesi sono all’origine anche del festival “Popsophia”, di cui Regazzoni è animatore regolare, fondato a Pesaro nel 2011 e attualmente diretto da Lucrezia Ercoli.47 Popsophia è, più in generale, un’associazione che, attraverso conferenze, corsi di formazione, spettacoli e collane editoriali, mira a creare “un laboratorio permanente dove il pensiero critico si contamina con le forme popolari della musica, del cinema, del teatro, dello sport, della televisione, della fiction, dei social media”.48 Benché dunque, come si è visto, il termine “pop-filosofia” o “popsophia” sia di origine deleuziana, Regazzoni lo ha imposto in Italia a partire da una prospettiva radicalmente derridiana, come appare chiaro in conclusione di un suo libro, più tradizionalmente filosofico, dedicato a un confronto tra biopolitica e decostruzione:

La cultura di massa è infatti lo spazio stesso in cui è all’opera la decostruzione dell’opposizione di cultura alta e cultura bassa; una decostruzione all’opera che investe oggi anche la filosofia e che ha interessato la stessa decostruzione derridiana, la cui diffusione globale è impensabile senza il processo di popolarizzazione statunitense della decostruzione.49

La pop-filosofia, nell’ottica di Regazzoni, si presenta come una sfida rivolta a recuperare nello spazio postmoderno, e contro l’irrigidimento del discorso accademico, la dimensione popolare che avrebbe da sempre caratterizzato il pensiero filosofico. Di più, si tratta di scardinare il rapporto, considerato ormai esaurito, che la filosofia intrattiene con la scrittura saggistica, per fare del pop non un ambito di applicazione ma un terreno a partire dal quale ripensare i problemi filosofici, misurandosi con la fiction e con generi di scrittura non tradizionali.

Decostruzione e moda

La moda potrebbe forse apparire come l’ambito più distante a cui associare il termine decostruzione. E tuttavia ampio è l’uso che ne è stato fatto, soprattutto a partire dagli anni Novanta. In riferimento ai design del belga Martin Margiela o del turco Hussein Chalayan si è infatti sostenuto che i loro lavori possono essere letti “come un parallelo concreto delle teorie di Jacques Derrida sulla decostruzione”.50 Qui l’aggettivo “decostruzionista” non definisce una particolare scuola o tendenza, ma sembra riferirsi a qualsiasi approccio riflessivo e problematizzato alla moda, dove, in modo analogo rispetto all’architettura, l’operazione critica si svolge direttamente attraverso la creazione di opere che sfidano gli assunti “umanistici” fondamentali.51

La moda decostruzionista è infatti una tipologia di design che produce capi che appaiono non finiti, una sorta di laboratorio in cui problematizzare almeno due elementi fondamentali: da un lato, l’idea stessa di forma, sperimentando con i canoni tradizionali di vestibilità e mettendo in discussione i parametri consueti che definiscono il rapporto tra il corpo e un abito, tra la sostanza e il suo apparire; dall’altro — e di conseguenza, se saltano i rapporti armonici di debita proportio tra corpo e vestito — il processo stesso della creazione, che non mira più né alla funzionalità né all’esteticità tradizionale.

Oltre ai casi già citati, è quanto si può trovare ad esempio nei lavori dei giapponesi Rei Kawabuko, fondatore di Comme des Garçons, e Yohji Yamamoto, portatori di una visione non occidentale dell’armonia, della bellezza e della sessualità,52 o, in misura minore, Ann Demeulemeester e Dries Van Noten. Ma non sono da escludere casi più recenti, come le collezioni del marchio Yeezy, partnership tra Adidas e il rapper e designer Kanye West.53 Occorre però segnalare come nessuno di questi autori abbia mai esplicitamente parlato della decostruzione come di un metodo di cui appropriarsi o di una teoria a cui fare riferimento. Sono stati dunque i critici a concettualizzare l’esistenza di una deconstructionist fashion, in un senso dunque perlopiù euristico che realmente descrittivo, per indicare un atteggiamento critico verso il sistema della moda in generale o, più in particolare, verso gli stilemi della moda anni Ottanta (tant’è che si è adoperato di frequente anche il termine francese “Le Destroy”).54

Si è spesso parlato di estetica “decostruzionista” a proposito del fashion design giapponese dei primi anni Ottanta e alla loro reinterpretazione della nozione di wabi-sabi (trovare la bellezza nell’imperfetto, nel transitorio); tuttavia, Granata55 ha mostrato come in realtà la prima occorrenza del termine risalga al settembre del 1989, quando il giornalista Bill Cunningham commentò sulla rivista Details la collezione autunno/inverno 1989/1990 di Margiela, presentata a Parigi nel marzo di quell’anno. In Margiela, scriveva Cunningham, “la costruzione degli abiti suggerisce un movimento decostruzionista, in cui la struttura del design appare sotto attacco: le cuciture sono spostate, la superficie è tormentata da incisioni. Tutto suggerisce uno stile di decadenza elegante”.56 Quella di Margiela, notoriamente riservato e ostile al culto dell’artista-genio, non è però una poetica romantica, benché non manchino allusioni in questo senso. Il suo approccio è scientifico, analitico, come se ogni capo fosse un esperimento o una dissezione anatomica, in cui il ritaglio e la rifunzionalizzazione di frammenti di tessuto o interi capi sono studiati in modo consapevole, per riprodurre quella dialettica (quella différance) tra norma e trasgressione che definisce il gesto proprio di ogni approccio decostruttivo. Se il fashion design ha come modello orientativo il corpo umano, Margiela porta in luce i meccanismi del processo creativo e gli assunti formali su cui l’outfitting si basa. Di più, essendo la moda inscritta in un sistema valoriale ed economico, ogni decostruzione del clothing come “cornice” per il corpo sottintende anche una messa in discussione di tutta l’“infrastruttura” che contorna il design, di tutto il sistema moda inteso come “testo” economico, mediatico, politico, tecnologico, culturale, ecc.57 Un esempio dell’attitudine riflessiva di questo tipo di moda è costituito da 9/4/1615, un’installazione esposta a Rotterdam nel 1997, in cui Margiela presentò capi conservati dentro box ed esposti all’azione di muffe e batteri. Il gesto fu interpretato in modi diversi: per alcuni, si trattava di una critica al circuito consumistico; per altri, di un’allusione alla sua decostruzione dell’alta moda.58 Come che sia, quale che fosse il suo intento preciso, ogni decostruzione – e poco importa qui l’ortodossia filosofica — agisce proprio in questo modo, introducendo un supplemento di riflessività che mira a de-naturalizzazione gli assiomi, i presupposti ideologici, le strutture materiali soggiacenti, i rituali e le norme più o meno esplicite che definiscono l’essenza e l’identità di un dato ambito, problematizzando le retoriche con cui una disciplina o un’arte concepisce se stessa e legittima la propria funzione. Si può forse rispondere con armi filologiche all’uso improprio che è stato fatto del termine “decostruzione”, annacquandolo e privandolo della sua specificità. Tuttavia, se è vero che la decostruzione è un processo già da sempre operativo nelle cose stesse, come esito della tensione, che attraversa tutta la realtà, tra storia e idealità, allora non si può non riconoscere a Derrida il merito di aver introdotto, forse inconsapevolmente, un termine capace di intercettare perfettamente le trasformazioni interne alle nostre società complesse. La sua storia degli effetti, che in questo saggio abbiamo cercato di ripercorrere brevemente e a tappe forzate, è dunque al contempo un tradimento e la migliore eredità possibile.

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  1. Cfr. Makoto Katsumori, Niels Bohr’s Complementarity: Its Structure, History and Intersections with Hermeneutics and Deconstruction (Dordrecht: Springer, 2011).↩︎

  2. Cfr. Ian Almond, Sufism and Deconstruction: A Comparative Study of Derrida and Ibn ’Arabi (London-New York: Routledge, 2004).↩︎

  3. Cfr. Ian Parker, Psychology after Deconstruction: Erasure and Social Reconstruction (London-New York: Routledge, 2015).↩︎

  4. Cfr. Minka Woermann, On the (Im)Possibility of Business Ethics. Critical Complexity, Deconstruction, and Implications for Understanding the Ethics of Business (Dordrecht: Springer, 2013)↩︎

  5. Cfr. Susanne Maas et al. (eds.), Gender Designs IT: Construction and Deconstruction of Information Society Technology (Wiesbaden: VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2007).↩︎

  6. Cfr. Tanya Wyatt, Wildlife Trafficking: A Deconstruction of the Crime, the Victims and the Offenders (Basingstoke-New York: Palgrave Macmillan, 2013).↩︎

  7. Cfr. Sushil Chandra, Aesthetics: Quantification and Deconstruction. A Case Study in Motorcycles (Dordrecht: Springer, 2018).↩︎

  8. Cfr. Daiqing Zhao, Wenjun Wang, Zhigang Luo, A Brief Overview of China’s ETS Pilots: Deconstruction and Assessment of Guangdong’s Greenhouse Gas Emission Trading Mechanism (Dordrecht: Springer, 2019).↩︎

  9. Per una definizione più puntuale del termine in Derrida, cfr. Leonard Lawlor, “Deconstruction”, in A Companion to Derrida, ed. Zeynep Direk e Leonard Lawlor (Malden: Wiley Blackwell, 2014), 122-131; Simone Regazzoni, “Decostruzione”, in Silvano Facioni, Simone Regazzoni, Francesco Vitale, Derridario. Dizionario della decostruzione (Genova: Il Nuovo Melangolo, 2012), 59-70. Cfr. poi un testo fondamentale come la “Lettera a un amico giapponese”, in Psyché. Invenzioni dell’altro. Vol. 2, tr. it. di Rodolfo Balzarotti (Milano: Jaca Book, 2009), 7-13.↩︎

  10. Martin Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi rivista da F. Volpi (Milano: Longanesi, 2001), §6, p. 36.↩︎

  11. Derrida, “Lettera a un amico giapponese,” 10.↩︎

  12. Cfr. Jacques Derrida, “La différance”, in Margini della filosofia, tr. it. di Manlio Iofrida (Torino: Einaudi, 1997), 29-57.↩︎

  13. A voler essere ortodossi, non si dovrebbe parlare di “concetto” o di “nozione” per indicare la différance, essendo essa ciò che rende problematica la localizzazione, appunto, di concetti e di nozioni nella loro separatezza rispetto agli apparati linguistici, storici, ecc. Tuttavia, queste sono precauzioni un po’ troppo estreme, che, nel loro rifiuto di parlare la lingua degli uomini, molto male hanno fatto a una corretta comprensione del pensiero di Derrida.↩︎

  14. Per questa lettura, cfr. Vincenzo Costa, La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (Milano: Jaca Book, 1996).↩︎

  15. Jacques Derrida, “’Qual quelle. Le fonti di Valéry”, in Margini della filosofia, 369.↩︎

  16. Jacques Derrida, Della grammatologia, tr. it. di AA.VV. (Milano: Jaca Book, 20122), 23-48.↩︎

  17. Cfr. Jacques Derrida, Limited Inc., tr. it. di Nicola Perullo (Milano: Cortina, 1997), 210.↩︎

  18. Francesco Vitale, “Decostruzione”, in Dizionario degli studi culturali, ed. Michele Cometa (Roma: Meltemi, 2004), 167-168.↩︎

  19. Cfr. l’eccellente analisi di Michèle Lamont, “How to Become a Dominant French Philosopher: The Case of Jacques Derrida”, The American Journal of Sociology, vol. 93, no. 3 (1987): 584-622.↩︎

  20. Martin McQuillan, Deconstruction without Derrida (London-New York: Continuum, 2012).↩︎

  21. Jacques Derrida, Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004), tr. it. di A. Cariolato (Milano: Jaca Book, 2016), 139.↩︎

  22. Jacques Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, tr. it. di A. Di Natale (Torino: Bollati Boringhieri, 2003), 23-4.↩︎

  23. Jacques Derrida, Come non essere postmoderni. “Post”, “neo” e altri ismi, a cura di Giovanni Leghissa (Milano: Medusa, 2002), 45.↩︎

  24. Ibid., 47↩︎

  25. Jacques Derrida, “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane”, in La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi (Torino: Einaudi, 2002), 359-376.↩︎

  26. Cfr. gli atti raccolti in Richard Macksey ed Eugenio Donato (eds.), The Structuralist Controversy: The Language of Criticism and the Sciences of Man (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 19722).↩︎

  27. Cfr. l’ormai classico François Cussett, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Co. all’assalto dell’America, tr. it. di F. Polidori (Milano: Il Saggiatore, 2012).↩︎

  28. Cfr. Jonathan Arac, Wlad Godzich e Wallace Martin (eds.), The Yale Critics: Deconstruction in America (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1983).↩︎

  29. Geoffrey Hartman, “Preface”, in Harold Bloom et al., Deconstruction and Criticism (London: Routledge, 1979), viii.↩︎

  30. Cfr. soprattutto Paul de Man, Allegorie della lettura, tr. it. di E. Saccone (Torino: Einaudi, 1997).↩︎

  31. Per una ricostruzione del rapporto di Derrida con l’architettura, cfr. Francesco Vitale, The Last Fortress of Metaphysics: Jacques Derrida and the Deconstruction of Architecture (Albany: SUNY Press, 2018); Mark Wigley, The Architecture of Deconstruction. Derrida’s Haunt (Cambridge, Ma.: MIT Press, 1995).↩︎

  32. Cfr. Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, ed. Jeffrey Kipnis e Tomas Leeser (London: Architectural Association, 1991).↩︎

  33. Cfr. Jacques Derrida, Adesso l’architettura, a cura di Francesco Vitale (Milano: Scheiwiller, 2008); Le arti dello spazio. Scritti e interventi sull’architettura, a cura di Francesco Vitale (Milano: Mimesis, 2018).↩︎

  34. Derrida, Adesso l’architettura, 136.↩︎

  35. Cfr. la loro conversazione informale al termine del convegno “Linguistics of Writing” (Glasgow, 1986), disponibile in due parti su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=CeNZWlsDhr4 e https://www.youtube.com/watch?v=W_Mtznrz3F0.↩︎

  36. Derrida, Pensare al non vedere, 319.↩︎

  37. Cfr. Gregory L. Ulmer, Heuretics: The Logic of Invention (Baltimore-London: Johns Hopkins University Press, 1994); Teletheory: Grammatology in the Age of Video (London-New York: Routledge, 1989); Applied Grammatology: Post(e)-Pedagogy from Jacques Derrida to Joseph Beuys (Baltimore-London: Johns Hopkins University Press, 1985).↩︎

  38. “[…] lo sviluppo delle pratiche dell’informazione estende ampiamente la possibilità del ‘messaggio’, fino al punto che questo non è più la traduzione”scritta" di un linguaggio, il trasporto di un significato che nella sua integrità potrebbe rimanere parlato. Tutto ciò va di pari passo con un’estensione delle fonografia e di tutti i mezzi per conservare il linguaggio parlato, per farlo funzionare al di fuori della presenza del soggetto parlante. […] questa non fortuita congiunzione della cibernetica e delle “scienze umane” della scrittura rimanda ad un rivolgimento più profondo" (Derrida, Della grammatologia, 28)↩︎

  39. Gran parte delle sue ricerche sono condotte in seno all’Institut de recherche et d’innovation da lui fondato nel 2006 al Centre Pompidou, con legami con istituzioni, aziende e università tra cui il Centro di cultura contemporanea di Barcellona, Microsoft France, Goldsmiths University of London, l’Università di Tokyo, l’Institut Mines-Telecom, France Télévisions, Organce e Société générale.↩︎

  40. Cfr. Jacques Derrida, La farmacia di Platone, a cura di Silvano Petrosino (Milano: Jaca Book, 2015).↩︎

  41. Cfr. Bernard Stiegler, De la misère symbolique. Tome I: L’Epoque hyperindustrielle (Paris: Galilée, 2004).↩︎

  42. Cfr. Bernard Stiegler, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, a cura di Paolo Vignola (Salerno: Orthotes, 2012); il numero speciale di Aut Aut, “Bernard Stiegler. Per una farmacologia della tecnica”, vol. 371 (2016).↩︎

  43. https://www.semainedelapopphilosophie.fr/.↩︎

  44. Cfr. soprattutto il testo programmatico Qu’est-ce que la pop’philosophie? (Paris: PUF, 2019), titolo che fa appunto il verso a un celebre libro di Deleuze e Guattari.↩︎

  45. Cfr. Simone Regazzoni (a cura di), Pop Filosofia (Genova: Il Nuovo Melangolo, 2010). Con il collettivo Blitris, La filosofia del Dr. House. Etica, logica ed epistemologia di un eroe televisivo (Milano: Ponte alle Grazie, 2007). Del solo Regazzoni, cfr. Harry Potter e la filosofia (Genova: Il Nuovo Melangolo, 2008); La filosofia di Lost (Milano: Ponte alle Grazie, 2009); Pornosofia. Filosofia del Pop Porno (Milano: Ponte alle Grazie, 2010); Sfortunato il paese che non ha eroi (Milano: Ponte alle Grazie, 2012); La filosofia di Harry Potter. Vivere e pensare con un classico contemporaneo (Milano: Ponte alle Grazie, 2017).↩︎

  46. Regazzoni, La filosofia di Harry Potter, 5.↩︎

  47. http://www.popsophia.it/. Lucrezia Ercoli ha curato anche il numero monografico della rivista Lo Sguardo dedicato proprio alla Popsophia: https://bit.ly/37JCuQu.↩︎

  48. http://www.popsophia.it/it/associazione/.↩︎

  49. Simone Regazzoni, Derrida. Biopolitica e democrazia (Genova: Il Nuovo Melangolo, 2012), 102.↩︎

  50. Christopher Breward, Fashion (Oxford: Oxford University Press, 2003), 236.↩︎

  51. A questo bisogna poi associare la grande importanza della decostruzione per gli studi di genere, che hanno messo in luce, in forma più o meno radicale, il ruolo giocato dalla performatività e dai condizionamenti sociali e culturali nella definizione della sessualità.↩︎

  52. Sull’importanza del design giapponese di questo periodo, cfr. Yuniya Kawamura, The Japanese Revolution in Paris Fashion (Oxford-New York: Berg, 2004).↩︎

  53. Cfr. Georgia Illingworth, Jacob Hall, “The Social Significance of Deconstruction”, Not Just A Label (16 giugno 2016), https://www.notjustalabel.com/editorial/social-significance-deconstruction.↩︎

  54. Cfr. Agata Zborowska, “Deconstruction in Contemporary Fashion Design: Analysis and Critique”, International Journal of Fashion Studies, vol. 2, no. 2 (2015): 185-202.↩︎

  55. Cfr. Francesca Granata, “Deconstruction Fashion: Carnival and the Grotesque”, Journal of Design History, vol. 26, no. 2 (2013): 182-198.↩︎

  56. Bill Cunningham, “The Collections”, Details (settembre 1989): 246.↩︎

  57. Cfr. Alison Gill, “Deconstruction Fashion: The Making of Unfinished, Decomposing and Re-Assembled Clothes”, Fashion Theory, vol. 2, no. 1 (1998): 25-50.↩︎

  58. Cfr. Bonnie English, A Cultural History of Fashion in the 20th and 21st Centuries: From Catwalk to Sidewalk (London: Bloomsbury, 2013), 63.↩︎